La Chiesa deve stare con chi soffre

Brasiliano di nascita, veneto d'origine, padre Geremia pone in risalto la vita della Congregazione. La missione principale resta quella di seguire i migranti di ogni latitudine.
12 Dicembre 2007 | di

Eletto, da appena un anno, superiore generale della Congregazione scalabriniana, il missionario dei migranti, padre Sergio Geremia, è un gaucho contrassegnato da una significante eredità. Il nonno paterno, Giuseppe, nato nel 1888 a Tezze sul Brenta, in provincia di Vicenza, a tre anni era già migrante insieme con i genitori e un fratellino. I Geremia – una famigliola come migliaia di altre dirette all’immenso e sconosciuto continente americano alla ricerca di un futuro degno, partite senza sapere dove sarebbero andate a finire – sbarcarono nel 1891 a Porto Alegre, la capitale del Rio Grande do Sul. Da lì proseguirono per 180 chilometri verso l’interno, fino ad arrivare a Santa Tereza-Muçum, località dove c’era la terra loro assegnata. Si stabilirono, lavorarono strenuamente, nacquero altri figli. Venticinquenne, Giuseppe sposò la bellunese Margherita Benvegnù, come lui emigrata bambina in Brasile. «Da quel matrimonio nacquero dieci figli, il secondo dei quali, Pietro, è mio padre», confida commosso padre Sergio. A sua volta, il patriarca Pedro, tuttora vivo e vegeto (l’ho incontrato nella sua casa di Dojs Lajeados nel gennaio scorso, mentre in Italia si svolgeva l’assemblea generale scalabriniana che dal Brasile avrebbe catapultato a Roma il suo primogenito!) ha generato ben quindici figli che hanno dato vita a una bella e numerosa tribù piena d’amore.

Essere nato nel sud del Brasile da una famiglia di discendenza veneta e ritrovarsi oggi alla guida della grande famiglia scalabriniana, per padre Geremia vuol dire soprattutto «dare almeno un poco del tanto ricevuto dagli antenati». Nel luglio scorso, a Tezze sul Brenta per una celebrazione organizzata dai Vicentini nel Mondo, egli ha rievocato la storia sua e di moltissimi altri. «Andavano in cerca di una terra, di un lavoro, di una casa dove poter creare la propria famiglia. Non portavano nulla di materiale con sé perché erano poveri, però possedevano un’eredità che non ha prezzo: la fede, l’amore per la famiglia, il senso del lavoro, dell’operosità. I nostri cari erano accompagnati dai missionari scalabriniani, e con il loro aiuto hanno trasmesso di generazione in generazione i valori della fede e dei buoni costumi. E così, a 120 anni dalla partenza degli antenati, un nipote ritorna – missionario come altri chiamati da Dio tra quelle prime famiglie – per ringraziare dell’eredità ricevuta e per la fedeltà con cui sono stati vissuti i valori d’origine». Ringraziare, essere fedele, donarsi con amore gioioso. Aiutare, ascoltare, capire, lavorare insieme, essendo presenza di comunione e di unità.

«Sono molto orgoglioso di lui – mi dice il fratello, padre Mario (pure lui scalabriniano, il decimo della nidiata dei Geremia) – e lo amo con tutto il cuore. È un grande esempio per noi confratelli e per i giovani che si stanno preparando alla missione, un esempio di povertà, semplicità, senso di responsabilità e impegno nelle cose profonde e importanti della vita. In modo speciale lo ammiro per la sua mistica, perché è realmente un uomo che prega molto». E tutto ciò rientra nell’ambito del quanto mai attuale carisma scalabriniano, al servizio oggi non più e non solo degli emigrati italiani ed europei, ma dei milioni di migranti, rifugiati, esiliati e marittimi che vivono fuori dai Paesi in cui sono nati. Una massa umana che si muove in tutte le direzioni.

Zampieri Pan. Missioni di ieri e di oggi: somiglianze e differenze.

Padre Geremia. I primi missionari partivano sulle navi insieme con i migranti, e una volta arrivati giravano per i villaggi, come al tempo di Gesù, predicando il vangelo, costruendo scuole e ospedali. Nel 1888 Scalabrini, profondamente angosciato dalle condizioni disumane in cui si trovavano quei poveretti, disse ai suoi seguaci: «Andate in ogni parte del nuovo mondo perché là vi attendono anime che hanno bisogno di voi». Oggi non si parla di un milione o di alcuni milioni di migranti, siamo oltre i 230 milioni. Sono aumentati, è vero, anche i missionari dei migranti, ma il numero è sproporzionato rispetto alle necessità. La pastorale della mobilità umana deve tener conto di tutte le categorie che la compongono (lavoratori, minori, donne, studenti, sfollati, rifugiati, ecc.), e deve accompagnare il delicato processo di inserimento nelle società d’arrivo, con tutte le sfide che ciò comporta, sia per chi arriva che per chi accoglie.

Anche oggi i missionari scalabriniani rispondono agli appelli delle comunità, inserendosi nelle nazioni e nei continenti, e sono essi stessi di diverse provenienze: europei, asiatici, latino-americani, africani. I missionari scalabriniani si sentono inviati a tutti – cristiani e non cristiani – con l’attenzione non soltanto alla cura delle anime, ma anche dei corpi, cioè dell’intera persona con i suoi diritti, la sua libertà, la sua dignità. E si caratterizzano – ieri come oggi – per alcuni particolari aspetti. Saranno perciò fedeli al disegno di Dio e creativamente fedeli al loro carisma. Vivranno la loro missione a partire dalla contemplazione e dalla comunione nella diversità. Rispettosi e attenti alla cultura dei migranti anche attraverso lo studio della lingua e della cultura dei luoghi in cui si trovano a vivere e a operare. Al servizio della giustizia, attenti al dialogo interculturale e interreligioso. Collaboratori delle Chiese locali in umiltà e spirito di servizio. Uomini che vivono con semplicità e povertà, evitando il protagonismo e curando invece la reciprocità e la qualità delle relazioni. Persone che si propongono di vivere la missione nella solidarietà e nella gratuità. Il missionario dei migranti è uno che cammina e si stanca quando si ferma. La parola di Gesù: «Andate, io sono con voi», è la sua forza.

Quali sono le attuali e più urgenti proposte? In che direzione sta andando la Congregazione Scalabriniana che lei guida?

Il Beato Scalabrini e la sua visione di carità non sono stati un dono esclusivo di Dio all’Italia come nazione, ma alla Chiesa come luogo di salvezza per tutti. Le proposte oggi sono urgenti e molteplici, e cambiano secondo le circostanze e le aree geografiche. Mentre, ad esempio, l’Europa si confronta con l’intercultura e il dialogo interreligioso per la forte presenza di migranti di religione non cristiana, in Africa si parla di convivenza pacifica e inter-tribale, in una realtà dove abbondano i rifugiati a causa delle guerre di regioni e nazioni limitrofe. Mentre in America del Nord si parla di costruire muri per separare primo e terzo mondo, e la migrazione è vista in termini economici e politici, in Asia i migranti sono ancora considerati merce di scambio, proprio come gli schiavi di una volta.

Le proposte per leggere le migrazioni in chiave di sviluppo, attraverso appositi apparati e accordi internazionali, sono la collaborazione e il dialogo tra Paesi che hanno bisogno di manodopera e Paesi che possono offrirla. Riguardo alla direzione della Congregazione Scalabriniana, trattandosi di un’opera ispirata da Dio al beato Scalabrini, non sappiamo dove Dio e il suo Spirito guideranno il nostro futuro. Si può dire che il nostro im-pegno è con i migranti che più soffrono nella propria carne il dramma della migrazione, proprio come diceva Scalabrini: «Dove c’è il popolo che soffre, lì deve esserci la Chiesa». Oggi i nostri orizzonti ci stanno portando verso l’Indonesia, il Vietnam, l’Africa, il Mediterraneo, i punti nevralgici delle frontiere centro e sud-americane, e anche nei centri di potere dove possiamo creare opinione e difendere i diritti dei migranti.

Che cosa può dire, attraverso questo giornale, alle migliaia di famiglie emigrate nel mondo e ai loro figli, nipoti e pronipoti, cioè ai giovani discendenti degli emigrati di un tempo?

Alle famiglie degli italiani e ai loro discendenti vorrei trasmettere il messaggio lasciatoci dai nostri antenati in partenza dalla loro terra. Erano poverissimi e, tuttavia, erano carichi di ricchezza umana, morale e spirituale. Un emigrante parlò un giorno a Scalabrini della drammatica alternativa cui era stato posto di fronte: «o rubare o migrare». Una scelta che lascia intravvedere un forte valore morale di onestà. I nostri primi migranti hanno portato con sé il valore di una famiglia cristianamente costruita, della fede vissuta, del lavoro onesto. Da pionieri in terre inospitali, hanno affrontato duri sacrifici. Oggi noi, loro nipoti e pronipoti, immersi in un mondo materialista, secolarizzato ed edonista, che relativizza l’Assoluto e assolutizza il relativo, e che persegue una libertà intesa come mancanza di regole e permesso di fare quello che dà piacere, noi siamo interpellati a guardare all’esempio e all’eredità che essi ci hanno lasciato. Il modo più onorevole per ricordarli è vivere i valori umani dell’amicizia e della solidarietà, i valori etici e morali dell’onestà e della sincerità, i valori cristiani di una fede vissuta nella famiglia e nella comunità cristiana. Questo ci hanno dato le migliaia di famiglie italiane sparse nel mondo! Perciò raccomando anche a tutti i lettori una fervida preghiera. Che Dio vi benedica!

Se lei avesse il dono dell’ubiquità, dove vorrebbe essere in questo momento, oltre che nella casa generalizia di via Calandrelli a Roma?

Veramente, se potessi scegliere quello che mi piace fare, non sceglierei il governo generale, ma piuttosto la missione tra i migranti: o fra i boliviani emigrati in Argentina – missione che è stata il mio primo amore – oppure fra i latino-americani a Porto Alegre dove sono stato soltanto due anni, ma che mi ha entusiasmato; oppure fra gli stranieri presenti ad Asunción, in Paraguay. Potrei scegliere tanti altri posti in altri Paesi del mondo, sempre, però, tra i migranti. Ma ora il Signore mi ha chiamato a dire il mio sì qui a Roma. Anche se non faccio quello che mi piace per mia scelta, mi piace fare quello che faccio perché cerco di farlo con amore, questa è la missione che mi è chiesta in questo momento. Il mio programma non sta in progetti nuovi (se Dio lo chiederà, si potranno anche fare) quanto nel dare continuità e consolidare quelli che già abbiamo. Ciò che mi sta più a cuore, è di dare attenzione alle persone dei confratelli: siamo esseri umani e cristiani, religiosi e missionari. Molte volte ci occupiamo fino a preoccuparci di fare molte cose, però l’essere umano necessita prima di tutto di ascolto. Ci sono poi i progetti di Congregazione che il Capitolo generale 2007 ci ha affidato, primo tra i quali e più urgente è il progetto della formazione, specialmente in Asia.
Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017