Padre Livio, un missionario multietnico
Roma
Ero giovinetta quando la coetanea Marta Manfron mi parlava con ammirazione di un cugino missionario. Una leggenda per me, borghesemente, anche se spartanamente, cresciuta in una villetta periferica della palladiana Vicenza. Non sapevo nulla di emigrazione se non qualcosa dei ripetuti stereotipi duri a morire. Né avevo ancora visitato, da turista, angoli del «nuovo mondo»: mistero per me lontano e inaccessibile oltre mezzo secolo fa, quando invece in moltissimi partivano dall’Italia, alla ricerca di lavoro, dignità e benessere per se stessi e per le loro famiglie. Un giorno ne avrei condiviso esperienze e storie. Oggi è diverso, molto diverso. Lo è per me, da oltre un ventennio esule-migrante immersa nella concreta e dinamica realtà di vita del continente americano, come lo è per chi in Italia sta affrontando, magari solo teoricamente, il «problema emigrazione». Bene che si facciano indagini e studi, che si organizzino convegni e premi, che si riallaccino rapporti (purtroppo più a scopo commerciale e politico che culturale e umano). Bene che finalmente l’Italia prenda coscienza del fenomeno e dei fenomeni: per imparare oltre che per insegnare, in uno scambio alla pari, umile e fecondo. Scossa dal terremoto-immigrazione, che sta mettendo alla prova vertici e base, guide politico-amministrative in permanente conflitto e popolazione malata di xenofobia e razzismo, la nostra cara e bella Italia troverà vie intelligenti e generose per uscire dalla nebbia che la circonda?
Da quasi un secolo e mezzo, gli Scalabriniani hanno assistito milioni di emigrati italiani e i loro discendenti, estendendo quindi la loro specifica missionarietà a molte altre etnie in stato di necessità. I missionari sono esperti e generosi, accompagnatori di popolazioni sofferenti in cammino per le infinite strade del mondo. Il vicentino padre Livio Stella è uno di loro. Nato sessant’anni fa a Giavenale di Schio, sacerdote dal 1975, l’ho incontrato per la prima volta nel 1995 alla Casa del Migrante di Tijuana (*) in Messico. Quale superiore della estesissima Provincia San Giovanni Battista (Usa west, Canada west, Messico, Guatemala) stava per organizzare l’apertura di due nuove case di accoglienza nelle zone cruciali delle migrazioni centroamericane sulle «linee del fuoco» di Tapachula e di Tecun Uman (**). L’ho di recente reincontrato alla Casa generalizia di Roma dove dall’anno scorso è primo consigliere, vicario ed economo generale.
Zampieri. Lei è missionario scalabriniano da oltre trent’anni. Può brevemente elencare luoghi e contesti nei quali si è trovato a lavorare?
Stella. Ho lasciato l’Italia ventenne, nel 1970, praticamente dopo il Liceo e lo studio della Filosofia, approdando a New York per iniziare gli studi di Teologia: ultimo passo del cammino verso il sacerdozio. Dopo un anno dedicato all’apprendimento della lingua inglese, mi trasferii all’Università di Toronto dove rimasi per circa quattro anni. Nel 1975 vidi realizzata la vocazione con l’ordinazione sacerdotale nel mio paese natale, attorniato da tutta la famiglia e dalla comunità parrocchiale. Il mio primo campo di lavoro fu proprio a Vancouver, precisamente nel North Shore, tra gli italiani emigrati di quella zona. È stata un’esperienza bella anche perché ero assieme all’allora parroco, padre Lorenzo Sabatini, che poi sarebbe diventato vescovo.
Nel 1978 i superiori mi chiesero di spostarmi a Chicago, in servizio pastorale agli emigrati di lingua spagnola. Un’esperienza difficile, anzitutto perché dovevo imparare una nuova lingua, e inserirmi in una nuova cultura, in una realtà tipica delle città degli Stati Uniti con le molte tensioni etniche e razziali esistenti all’epoca. Nel 1982 ero invece in cammino verso il Messico: a Guadalajara iniziava un fermento di vocazioni scalabriniane. Mi misi all’opera per la costruzione di un seminario in quella città, e per realizzarne poi un secondo nella vicina città di Zamora, nello Stato del Michoacan. Otto anni di residenza in Messico hanno lasciato una traccia molto positiva nella mia personalità, soprattutto per il calore umano di tutte le persone colà incontrate.
Nel 1991, di nuovo a Chicago, mi aspettava un lavoro più freddo: non solo per il clima ma perché ero stato chiamato a ricoprire l’incarico di Superiore provinciale, con tutti i risvolti di gestione aziendale, e senza il contatto diretto con la gente cui ero abituato. Furono tuttavia sei anni di attività intensa, di viaggi e di visite a persone più o meno importanti. Nel 1997 mi fu chiesto di assumere la guida di una grossa parrocchia a Los Angeles, in servizio pastorale ai moltissimi immigrati ispanici, e a un buon numero di filippini. Un ritmo intensissimo di sacramenti, messe, gruppi, carità, attività sociali, e così via. Nove messe ogni domenica!
Nel 2002 lasciai di nuovo gli Stati Uniti, e mi spostai in Guatemala, in un luogo missionario veramente difficile per il clima caldo e umido, per la povertà della popolazione, l’estensione del territorio, il costante movimento di centroamericani con il desiderio di iniziare la loro lunga e ardua odissea verso gli Stati Uniti, attraversando tutto il Messico. A Tecun Uman (**), frontiera del Guatemala con il Messico, rimasi fino al 2006, facendo rientro qualche mese dopo in Italia, e precisamente a Roma. Ero stato eletto a far parte dell’amministrazione generale della Congregazione dei Missionari di San Carlo, noi Scalabriniani, come economo e vicario. Sono in tutto 60 anni di vita: 33 di sacerdote e missionario, vissuti in Canada, Usa, Messico, Guatemala, e ora in Italia.
Lei conosce bene il Nord America dei vecchi emigrati, e il Centro America dei nuovi migranti. Differenze e somiglianze: ce ne sono molte?
La somiglianza fondamentale – ciò che ha spinto gli emigrati italiani ed europei, e ora i nuovi migranti dal Messico, dal Centro America e da ogni altra parte del mondo – è la mancanza di lavoro nella propria patria, con il desiderio di migliorare la propria situazione economica familiare. Le popolazioni lasciano la propria terra spinte dalla necessità di sopravvivere. Infatti quasi tutti iniziano il loro cammino d’emigrazione sperando di tornare al più presto a casa e vivere economicamente tranquilli. Ma ben sappiamo che ciò non è accaduto in passato e non succede neppure ora.
Vi sono, però, alcune differenze tra le vecchie migrazioni e le odierne. Nel passato era più facile trovare lavoro, e la mano d’opera era molto più richiesta. L’avvento dell’industrializzazione con le tecniche moderne – macchinari e sistemi computerizzati – ha fatto diminuire la necessità di braccia da lavoro. Ora si cercano i lavoratori specializzati. Inoltre, gli emigrati arrivati un tempo dall’Europa, una volta sistemati nella patria d’accoglienza e formata una famiglia, abbandonavano l’idea di tornare nella patria d’origine. Oggi i trasporti aerei hanno rivoluzionato tempi e costi, per cui il migrante fa ritorno più spesso alla sua terra e l’integrazione è forse più lenta. I figli tuttavia – la cosiddetta seconda generazione – si inserisce nelle nuove società alla stessa maniera e con lo stesso ritmo che in passato.
Da un anno alla direzione generale di Roma, rientrato in Italia dopo la dura esperienza di Tecun Uman, come vorrebbe parlarne, da veneto d’origine, ai veneti e a quanti altri la leggeranno?
Tornare in Italia dopo 37 anni di assenza è stato uno shock culturale non indifferente. Tuttavia, l’esperienza accumulata per il fatto di essermi dovuto inserire continuamente in nuove culture, lingue, nazioni, situazioni sociali, mi ha aiutato molto. Anche se venivo talora in Italia a visitare la mia famiglia, e per qualche settimana di vacanza, non è come viverci. Ho trovato un’Italia che da Paese d’emigrazione è diventata terra di immigrati. Il tessuto sociale ed economico è molto cambiato. Sono tuttavia contento di quest’esperienza che mi vedrà a Roma fino al 2013, sempre che il Signore mi dia salute e vita.
L’America è lontana dal Veneto, ma sempre ho portato con me l’eredità culturale e religiosa ricevuta dalla famiglia, e respirata nel substrato sociale del Paese di nascita. Sono valori che si traducono nella tenacia del lavoro, nella dedizione all’opera, nella fedeltà a ideali e impegni, nell’apertura a nuovi orizzonti. D’altra parte il Veneto è stato territorio di transito di molte popolazioni nei secoli, di molte forme di governo (pensiamo alle città-stato del Medio Evo, alla Repubblica di Venezia, agli Austriaci, ai Francesi, ai Piemontesi...), e perciò di varie esperienze culturali e sociali. Sempre le popolazioni si sono trovate nella necessità di fare spazio, di accogliere, di adattarsi, oggi si direbbe di «inculturarsi».
Com’è ora il suo lavoro di vicario ed economo della Congregazione?
Come membro del Consiglio, è mio compito coadiuvare il Superiore generale (***) nel suo mandato di guidare la Congregazione dei missionari scalabriniani. Dobbiamo lavorare insieme, e avere una visione condivisa della realtà e di ciò che vogliamo sia la Congregazione nella Chiesa e nel mondo in futuro. Dobbiamo saper leggere i segni dei tempi, valutare la realtà e programmare le forze a nostra disposizione, sia le risorse umane che quelle economiche. Proprio come si fa in ogni famiglia, nel rispetto mutuo e soprattutto con la coscienza che è Dio che ci guida, e guida il mondo. Noi siamo solo degli strumenti al suo servizio.
Una parola d’incoraggiamento e d’augurio a quanti lavorano per e con i migranti.
In un mondo in cui i migranti sono visti come «diversi», naturalmente si teme che vengano a portarci via qualcosa che è nostro. Il missionario dei migranti deve essere quindi l’uomo della conciliazione e del dialogo. Deve essere, nel senso originale della parola, «pontefice» ossia creatore di ponti che legano le culture e le nazioni in un dialogo di apprezzamento e mutua accettazione. Deve essere un annunciatore di speranza per cui il migrante e il residente trovino uno scopo comune per vivere assieme. Tutti desiderano che la propria famiglia prosperi e che la nuova patria di adozione sia forse più generosa di quella che hanno dovuto lasciare.
(*) Un nuovo calvario del popolo migrante (cf Messaggero di sant’Antonio-edizione italiana per l’estero, aprile 1995).
(**) M’i npo’n ba’j: senza limiti, né frontiere (idem, marzo 1996).
(***) La Chiesa deve stare con chi soffre (cf. Intervista a padre Sergio Geremia, nuovo Superiore generale degli Scalabriniani, Gennaio 2008).