Un calcio al razzizmo. Per sempre!
Il più grande evento sportivo dell'Africa suggella la riconciliazione del Paese. Un monito e un modello per chi vuole davvero bandire ogni discriminazione dal mondo.
14 Aprile 2010
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Pretoria
I Campionati mondiali di calcio in Sudafrica non sono solo un evento sportivo. Prima ancora che un pallone tocchi terra si celebra infatti la vittoria dei diritti umani sulla discriminazione, l’unità di un Paese sulla diversità, l’integrazione di popoli diversi, la centralità di un continente che non è mai stato al centro dell’attenzione sportiva. Prima ancora che si alzi il sipario, il Sudafrica festeggia la sua piena riconciliazione con quel mondo sportivo che lo ha bandito da ogni terreno di gioco negli anni più bui dell’Apartheid.
Non è un caso se questo mondiale cade nell’anno in cui si celebra il ventennale da uomo libero di Nelson Mandela, simbolo della lotta contro il regime segregazionista bianco che utilizzò proprio lo sport per muovere i primi passi e avviare quel dialogo che consentì poi la sua liberazione. E non è un caso se esce proprio in questi mesi un film dedicato alla storia dell’intreccio di vicende tra Mandela e il rugby. In carcere, Mandela non parlava di diritti umani con i membri del governo. Parlava di calcio e di rugby in un Paese che riservava il rugby ai bianchi e il calcio ai cosiddetti atleti non-white.
In Sudafrica la lotta contro l’Apartheid nello sport è stata l’amplificatore mondiale della lotta contro la discriminazione in generale. Si parlava di sport per parlare di diritti umani usando un linguaggio trasversale e trans-nazionale che poteva avere quell’impatto diretto e forte con il grande pubblico senza dare l’impressione di toccare, necessariamente e direttamente, temi politici. Oggi dobbiamo ringraziare anche il Sudafrica se lo sport è diventato terreno di incontro su cui far convergere e mediare istanze diverse, ma soprattutto dobbiamo ringraziare questo Paese se le Nazioni Unite hanno cominciato a trattare con metodicità e costanza i temi dello sport fino a celebrarlo come strumento per realizzare i suoi stessi obiettivi.
Nel periodo 1968-1985, l’Assemblea generale dell’Onu adotta una serie di risoluzioni che affrontano con severità il tema dell’Apartheid nello sport, fino ad arrivare alla Dichiarazione Internazionale contro l’Apartheid nello Sport, nel 1977, e alla Convenzione Internazionale contro l’Apartheid nello Sport, nel 1985.
L’Onu condanna la politica di Apartheid del governo sudafricano, mettendo in luce i pericoli che ne derivano sia in relazione alla violazione dei diritti dell’uomo, sia per le minacce alla pace e alla sicurezza internazionale. La comunità internazionale è chiamata a mettere in atto una vera e propria campagna contro l’Apartheid, e tutti gli Stati membri sono invitati a sospendere anche gli scambi sportivi con questo Paese. Lo sport diventa perciò un nuovo ambito in cui applicare la sanzione dell’embargo.
L’Onu aveva tutte le ragioni di intervenire nei confronti del Sudafrica che praticava una severa e assoluta discriminazione razziale anche nello sport, e che condurrà all’espulsione del Comitato olimpico sudafricano dal Cio. Era vietata la composizione di squadre miste, come pure qualsiasi tipo di contatto e competizione tra atleti bianchi e di colore sia all’interno del Paese sia all’estero; il governo imponeva un’organizzazione sportiva separata tra bianchi e neri, e vietava la composizione di squadre miste. Anche le squadre straniere che si recavano in Sudafrica dovevano uniformarsi a questa regola, e dunque dovevano essere composte solo da atleti bianchi. All’interno del Paese, atleti neri, sudafricani o stranieri potevano competere solo contro atleti neri. Mentre agli atleti bianchi era riservata l’iscrizione e la partecipazione alle attività gestite dalle Federazioni internazionali, agli altri era stata imposta un’organizzazione distinta.
Una vasta opera di sensibilizzazione contro queste misure era portata avanti dall’Organisation de l’Unité Africaine, dal Conseil Suprême du Sport Africain e dal South Africa Non-Racial Olympic Committee (SAN-ROC), sorto in opposizione al Comitato olimpico nazionale locale. La loro vasta azione di propaganda a livello internazionale fa sì che lo sport diventi uno strumento che il mondo intero ha a disposizione per dimostrare la propria disapprovazione alla politica del Paese.
L’intervento dell’Onu è severo e, a cavallo degli Anni Settanta, si moltiplicano gli appelli per isolare il regime sudafricano chiedendo l’utilizzo dell’embargo allargato allo sport: sia lo sport giocato, sia quello che coinvolge, in modo indiretto, il pubblico poiché l’invito all’embargo è rivolto anche agli spettatori; il riconoscimento della validità dei principi delle Olimpiadi; l’appello a coinvolgere in questa iniziativa anche le organizzazioni sportive internazionali, riconoscendo loro un ruolo diretto e strumentale. Tutti i Paesi che continuano a supportare la politica sudafricana di Apartheid sono messi al bando, ponendo sullo stesso piano le relazioni politiche, commerciali, militari, economiche, sociali e sportive.
Nel 1974, la Risoluzione 3223 intitolata Decade for Action to Combat Racism and Racial Discrimination contiene l’appello a riaffermare, con determinazione e senza condizioni, la lotta al razzismo e alla discriminazione razziale che rappresenta un ostacolo per il progresso e per il rafforzamento della pace e della sicurezza internazionale.
Lo sforzo compiuto dalle Nazioni Unite per combattere quello che è stato definito un «crimine contro l’umanità», è sfociato, nel 1976, nella creazione di un Comitato incaricato della stesura di una Convenzione contro l’Apartheid nello Sport, che viene preceduta, nel 1977, da una Dichiarazione Internazionale contro l’Apartheid nello Sport. Questi atti ribadiscono, con sempre maggiore fermezza e convinzione, il principio olimpico di non discriminazione, l’invito rivolto a tutte le organizzazioni nazionali e internazionali a rispettarlo, il divieto per tutti gli Stati firmatari di aiutare, assistere, incoraggiare, incontrare organizzazioni sportive, squadre o atleti che partecipino ad attività sportive in un Paese che pratica una politica di Apartheid.
L’isolamento sportivo del Sudafrica, sia da parte dell’Onu che del Cio, ha termine negli anni Novanta. La Risoluzione Onu 48/1 del 12 ottobre 1993 sancisce l’abolizione dell’embargo relativo al Sudafrica. Con la successiva Risoluzione 48/159 del 20 dicembre 1993, gli Stati membri sono invitati ad aiutare e ad assistere il Sud Africa anche per abolire le vecchie misure di segregazione razziale applicate allo sport. Intanto, il Comitato olimpico del Sudafrica che chiedeva dal 1981 di essere riammesso in seno al Cio, ottiene nel 1991 la sua piena riabilitazione in ambito sportivo. Solo allora, infatti, il Cio ha ritenuto che fosse cessata la situazione di discriminazione che ne aveva causato l’espulsione dalla famiglia olimpica. Per queste ragioni, oggi, a distanza di un decennio, aprire le porte a un evento come un Mondiale di Calcio, ha per il Sudafrica un valore aggiunto inestimabile perché lo sport è stato per questo Paese lo strumento per abbattere barriere sociali e di integrazione.
Se ai Mondiali di rugby del 1995 il motto era «Una squadra, un Paese» a significare che l’unità raggiunta nello sport era sintomo dell’unità interna del Paese, oggi il motto dei mondiali di calcio è «Il sogno africano sta diventando realtà», come ha dichiarato Irvin Khoza, presidente del Comitato organizzatore, ricordando che questo sarà anche e soprattutto il mondiale dei diritti umani, e il primo grande evento sportivo ospitato in questo continente.
I Campionati mondiali di calcio in Sudafrica non sono solo un evento sportivo. Prima ancora che un pallone tocchi terra si celebra infatti la vittoria dei diritti umani sulla discriminazione, l’unità di un Paese sulla diversità, l’integrazione di popoli diversi, la centralità di un continente che non è mai stato al centro dell’attenzione sportiva. Prima ancora che si alzi il sipario, il Sudafrica festeggia la sua piena riconciliazione con quel mondo sportivo che lo ha bandito da ogni terreno di gioco negli anni più bui dell’Apartheid.
Non è un caso se questo mondiale cade nell’anno in cui si celebra il ventennale da uomo libero di Nelson Mandela, simbolo della lotta contro il regime segregazionista bianco che utilizzò proprio lo sport per muovere i primi passi e avviare quel dialogo che consentì poi la sua liberazione. E non è un caso se esce proprio in questi mesi un film dedicato alla storia dell’intreccio di vicende tra Mandela e il rugby. In carcere, Mandela non parlava di diritti umani con i membri del governo. Parlava di calcio e di rugby in un Paese che riservava il rugby ai bianchi e il calcio ai cosiddetti atleti non-white.
In Sudafrica la lotta contro l’Apartheid nello sport è stata l’amplificatore mondiale della lotta contro la discriminazione in generale. Si parlava di sport per parlare di diritti umani usando un linguaggio trasversale e trans-nazionale che poteva avere quell’impatto diretto e forte con il grande pubblico senza dare l’impressione di toccare, necessariamente e direttamente, temi politici. Oggi dobbiamo ringraziare anche il Sudafrica se lo sport è diventato terreno di incontro su cui far convergere e mediare istanze diverse, ma soprattutto dobbiamo ringraziare questo Paese se le Nazioni Unite hanno cominciato a trattare con metodicità e costanza i temi dello sport fino a celebrarlo come strumento per realizzare i suoi stessi obiettivi.
Nel periodo 1968-1985, l’Assemblea generale dell’Onu adotta una serie di risoluzioni che affrontano con severità il tema dell’Apartheid nello sport, fino ad arrivare alla Dichiarazione Internazionale contro l’Apartheid nello Sport, nel 1977, e alla Convenzione Internazionale contro l’Apartheid nello Sport, nel 1985.
L’Onu condanna la politica di Apartheid del governo sudafricano, mettendo in luce i pericoli che ne derivano sia in relazione alla violazione dei diritti dell’uomo, sia per le minacce alla pace e alla sicurezza internazionale. La comunità internazionale è chiamata a mettere in atto una vera e propria campagna contro l’Apartheid, e tutti gli Stati membri sono invitati a sospendere anche gli scambi sportivi con questo Paese. Lo sport diventa perciò un nuovo ambito in cui applicare la sanzione dell’embargo.
L’Onu aveva tutte le ragioni di intervenire nei confronti del Sudafrica che praticava una severa e assoluta discriminazione razziale anche nello sport, e che condurrà all’espulsione del Comitato olimpico sudafricano dal Cio. Era vietata la composizione di squadre miste, come pure qualsiasi tipo di contatto e competizione tra atleti bianchi e di colore sia all’interno del Paese sia all’estero; il governo imponeva un’organizzazione sportiva separata tra bianchi e neri, e vietava la composizione di squadre miste. Anche le squadre straniere che si recavano in Sudafrica dovevano uniformarsi a questa regola, e dunque dovevano essere composte solo da atleti bianchi. All’interno del Paese, atleti neri, sudafricani o stranieri potevano competere solo contro atleti neri. Mentre agli atleti bianchi era riservata l’iscrizione e la partecipazione alle attività gestite dalle Federazioni internazionali, agli altri era stata imposta un’organizzazione distinta.
Una vasta opera di sensibilizzazione contro queste misure era portata avanti dall’Organisation de l’Unité Africaine, dal Conseil Suprême du Sport Africain e dal South Africa Non-Racial Olympic Committee (SAN-ROC), sorto in opposizione al Comitato olimpico nazionale locale. La loro vasta azione di propaganda a livello internazionale fa sì che lo sport diventi uno strumento che il mondo intero ha a disposizione per dimostrare la propria disapprovazione alla politica del Paese.
L’intervento dell’Onu è severo e, a cavallo degli Anni Settanta, si moltiplicano gli appelli per isolare il regime sudafricano chiedendo l’utilizzo dell’embargo allargato allo sport: sia lo sport giocato, sia quello che coinvolge, in modo indiretto, il pubblico poiché l’invito all’embargo è rivolto anche agli spettatori; il riconoscimento della validità dei principi delle Olimpiadi; l’appello a coinvolgere in questa iniziativa anche le organizzazioni sportive internazionali, riconoscendo loro un ruolo diretto e strumentale. Tutti i Paesi che continuano a supportare la politica sudafricana di Apartheid sono messi al bando, ponendo sullo stesso piano le relazioni politiche, commerciali, militari, economiche, sociali e sportive.
Nel 1974, la Risoluzione 3223 intitolata Decade for Action to Combat Racism and Racial Discrimination contiene l’appello a riaffermare, con determinazione e senza condizioni, la lotta al razzismo e alla discriminazione razziale che rappresenta un ostacolo per il progresso e per il rafforzamento della pace e della sicurezza internazionale.
Lo sforzo compiuto dalle Nazioni Unite per combattere quello che è stato definito un «crimine contro l’umanità», è sfociato, nel 1976, nella creazione di un Comitato incaricato della stesura di una Convenzione contro l’Apartheid nello Sport, che viene preceduta, nel 1977, da una Dichiarazione Internazionale contro l’Apartheid nello Sport. Questi atti ribadiscono, con sempre maggiore fermezza e convinzione, il principio olimpico di non discriminazione, l’invito rivolto a tutte le organizzazioni nazionali e internazionali a rispettarlo, il divieto per tutti gli Stati firmatari di aiutare, assistere, incoraggiare, incontrare organizzazioni sportive, squadre o atleti che partecipino ad attività sportive in un Paese che pratica una politica di Apartheid.
L’isolamento sportivo del Sudafrica, sia da parte dell’Onu che del Cio, ha termine negli anni Novanta. La Risoluzione Onu 48/1 del 12 ottobre 1993 sancisce l’abolizione dell’embargo relativo al Sudafrica. Con la successiva Risoluzione 48/159 del 20 dicembre 1993, gli Stati membri sono invitati ad aiutare e ad assistere il Sud Africa anche per abolire le vecchie misure di segregazione razziale applicate allo sport. Intanto, il Comitato olimpico del Sudafrica che chiedeva dal 1981 di essere riammesso in seno al Cio, ottiene nel 1991 la sua piena riabilitazione in ambito sportivo. Solo allora, infatti, il Cio ha ritenuto che fosse cessata la situazione di discriminazione che ne aveva causato l’espulsione dalla famiglia olimpica. Per queste ragioni, oggi, a distanza di un decennio, aprire le porte a un evento come un Mondiale di Calcio, ha per il Sudafrica un valore aggiunto inestimabile perché lo sport è stato per questo Paese lo strumento per abbattere barriere sociali e di integrazione.
Se ai Mondiali di rugby del 1995 il motto era «Una squadra, un Paese» a significare che l’unità raggiunta nello sport era sintomo dell’unità interna del Paese, oggi il motto dei mondiali di calcio è «Il sogno africano sta diventando realtà», come ha dichiarato Irvin Khoza, presidente del Comitato organizzatore, ricordando che questo sarà anche e soprattutto il mondiale dei diritti umani, e il primo grande evento sportivo ospitato in questo continente.
Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017