La lingua, i giovani e la fede

Imporre l'italiano significa perdere le nuove generazioni. E la preoccupazione di monsignor Scalabrini era di proteggere proprio la fede dei migranti. Cent'anni dopo dobbiamo farlo con nuovi linguaggi.
12 Ottobre 2010 | di

Nel 1905 monsignor G. B. Scalabrini presentò alla Santa Sede un progetto per la costituzione di una Commissione pontificia Pro Emigratis Catholicis. Possiamo considerarlo il suo testamento spirituale, il suo sogno per gli emigranti, visto che morirà nello stesso anno. Sfortunatamente questo progetto non andò in porto: era troppo all’avanguardia per quei tempi. Ci vorranno molti anni prima che la Chiesa realizzi alcune delle intuizioni espresse da monsignor Scalabrini all’inizio del XX secolo.
In un passaggio di questo «Memoriale», monsignor Scalabrini afferma: «La lingua è un arcano mezzo di conservare la fede. Non è facile spiegarlo, ma è un fatto che perdendo la lingua, facilmente si perde anche la fede avita. Quale ne sia la ragione arcana è difficile determinarlo, ma l’esperienza ci dice che sino a che una famiglia conserva all’estero la propria lingua, difficilmente muta la propria fede». Queste parole mi colpiscono e mi fanno riflettere sulla pastorale migratoria che portiamo avanti e, in particolare, sul nostro apostolato tra i giovani delle nuove generazioni. Se le parole di monsignor Scalabrini sono di stringente attualità, seppure a distanza di oltre cento anni da quella che definiamo la «prima generazione di migranti», quanto possono essere ancora applicate anche alla seconda e alla terza generazione?
Nelle mie attività pastorali incontro vari giovani, non solo italiani. Ho iniziato il mio ministero sacerdotale a Los Angeles con i giovani latinoamericani, e da sei anni seguo e coordino a livello europeo le attività di pastorale giovanile e vocazionale nell’area europea della Congregazione Scalabriniana. Sempre più mi confronto con giovani che sono alla ricerca di una sintesi di identità, e alla ricerca di una loro fede.
Essere giovane è già una condizione di ricerca, da tanti punti di vista: identitario, culturale, professionale, spirituale, tanto più lo è in un contesto migratorio in cui occorre ritrovare se stessi e definirsi in un ambiente multilingue, multiculturale e multireligioso. Ma concentriamoci sulle parole di monsignor Scalabrini ovvero sul rapporto tra «fede e lingua». Come possiamo applicarle alla seconda e terza generazione?
 

Identità e lingua madre
I giovani delle seconde e terze generazioni fanno fatica a definire qual è la loro identità, e tanto più la loro lingua. Il concetto di lingua madre è molto relativo. Se penso alla mia vita, e prendo alla lettera il termine lingua madre, dovrei dire che la lingua insegnatami dai miei genitori non è stato l’italiano ma il dialetto leccese. Certo, avendo vissuto per tanti anni in Italia, la lingua italiana è diventata l’idioma delle relazioni ufficiali, come per esempio a scuola o negli uffici. Ma poi ho dovuto studiare l’italiano e faticare sui libri per apprenderlo.
I giovani nati in emigrazione devono districarsi tra contesti linguistici multipli. Prendiamo il caso di Basilea: la città in cui vivo. Qui i giovani, in casa, parlano prevalentemente il dialetto dei genitori (si può chiamare ancora lingua madre?), poi c’è il tedesco, la lingua ufficiale del cantone, poi il Basel Deutsch cioè il dialetto – che qui è considerato una vera e propria lingua – e che rappresenta per i giovani la lingua comune, quella della strada, delle amicizie, che apprendono da piccoli, relazionandosi con la società in cui vivono. Tra di loro, i giovani italiani parlano una lingua mista tra il Basel Deutsch e l’italiano: sembra quasi che abbiano in testa un loro archivio di parole, e quando non ne trovano una in una lingua passano automaticamente all’altra. In pratica, avviene il fenomeno definito come switch: un processo di alternanza di codici linguistici tra due lingue. Questo fenomeno è tipico di tutte le seconde e terze generazioni, in ogni parte del mondo; c’è infatti l’itaniolo (italiano) e spagnolo), lo spanglish (spagnolo e inglese). Per non parlare poi delle lingue che si apprendono a scuola, come l’inglese e il francese, che arricchiscono oppure complicano ancora di più il proprio repertorio linguistico.
Come si colloca l’italiano in questo contesto? Per coloro che sono nati a Basilea resta la lingua delle «occasioni»: molti dei giovani che conosco hanno frequentato i corsi di lingua e cultura italiana, – sempre più ridotti a causa dei tagli che il governo italiano continua a fare! – che equivalgono a poche ore di lezione settimanali. Alcuni hanno frequentato le scuole bilingui, con maggiori possibilità di parlare e imparare l’italiano. Ma l’italiano è anche la lingua usata per comunicare quando ci si ritrova tra connazionali (vista la diversità di provenienza regionale), e infine è anche la lingua della fede quando vengono in parrocchia.
Fondamentalmente, il punto a cui sono arrivato con la mia riflessione è che l’italiano non è la lingua principale (o lingua madre) dei nostri ragazzi. Non lo è, però, neanche il tedesco. Dunque, riprendendo il pensiero di monsignor Scalabrini, qual è la lingua che i nostri giovani non dovrebbero perdere per non perdere la fede?
Ho provato a portare alcuni dei nostri giovani a messa in una parrocchia svizzera. Pur capendo la lingua, la risposta che mi hanno dato all’uscita è stata: «Non sapevamo rispondere, non sappiamo pregare in tedesco». Alla prima risposta c’è rimedio, ma alla seconda? La fede è trasmessa in parte dai genitori, che da piccoli insegnano le preghiere – in italiano – e poi dalla parrocchia attraverso la catechesi e le varie attività. Ma come si può vivere ed esprimere una fede quando, della lingua con cui è formulata, si conosce una minima percentuale di vocaboli?
Forse dall’esterno non s’immagina nemmeno quanta fatica si faccia nel preparare un’omelia o un incontro di formazione, cercando le parole più semplici, comprensibili, vicine al mondo di coloro che ascoltano perché, in fondo, l’obiettivo è questo: comunicare! E se le nostre parole non toccano il cuore e la mente di chi ascolta perché sono troppo difficili, tecniche o appartenenti a contesti culturali troppo distanti, cosa resta di tutto ciò che diciamo?
In questi anni ho sviluppato una «personale sofferenza» pensando al linguaggio liturgico: mi preoccupa il fatto che dall’altare diciamo tante parole che la gente non capisce. Ogni volta che celebro la Messa, mi chiedo cosa sta capendo chi mi ascolta quando recito le Collette o i Prefazi. Di questi non nego la bellezza e la profondità teologica, biblica o spirituale, ma a livello linguistico i termini e i concetti sono distanti anni luce dalla vita e dai parametri culturali di chi li ascolta, specie in un contesto d’emigrazione.
Alcune idee per comunicare il Vangelo
A che serve dire quelle parole se non comunicano? Un amico prete liturgista mi ha detto una volta che la Chiesa è restia a cambiare quei testi perché si teme che, semplificando il linguaggio, si possa svuotarne il significato. Preoccupazione legittima, ma personalmente la vedrei come una sfida, oltre che come un’urgenza.
Sta di fatto che i giovani sono sempre più distanti dalle nostre liturgie e dalle Messe. Che fare allora? Provo a delineare alcuni spunti per una riflessione e un’azione.
L’italiano può essere definito la lingua del cuore e quindi dobbiamo puntare a fare in modo che i giovani la apprendano sempre meglio. Questo significa che, se il governo italiano taglia ancora di più i finanziamenti per i corsi di lingua e cultura, dobbiamo attivarci in parrocchia e con le associazioni di volontariato per offrire ai nostri giovani qualche corso gratuito. Questo processo permetterà loro di comprendere maggiormente i concetti biblici, i contenuti della catechesi; di esprimere meglio le loro idee e la fede e, infine, di comprendere anche il linguaggio liturgico durante le nostre celebrazioni.
Puntare maggiormente sulla formazione globale dei nostri giovani. Dato che non si ama ciò che non si conosce, penso che per amare Gesù Cristo non basti una conoscenza linguistica, ma occorra elevare il livello culturale delle persone. Le difficoltà provengono dal sistema di formazione svizzero che privilegia fin da subito l’apprendimento specialistico a scapito di una formazione culturale generale. Cosa può comportare questo per le nostre parrocchie o missioni? Forse puntare maggiormente sugli eventi culturali – cosa che già veniva fatta in passato – e offrire non solo corsi di lingua ma veri percorsi di formazione di cultura generale.
Andare incontro ai giovani, ascoltando il loro mondo. A mio avviso, la Chiesa in generale, e noi operatori pastorali in particolare, dovremmo avere il coraggio di recuperare quel vecchio fenomeno definito come inculturazione della fede, adottato da Gesù quando usava le parabole per farsi capire da chi lo ascoltava, da san Paolo che usava il greco per diffondere il Vangelo, e dai tanti missionari e missionarie che nel corso della storia hanno saputo coniugare l’annuncio della fede con la cultura dei paesi dove andavano. Mi chiedo quindi se invece di portare i giovani nel nostro mondo, non dovremmo andare noi nel loro facendo lo sforzo di riformulare i contenuti della fede secondo i loro parametri linguistici (compreso il dialetto basilese) e culturali, per renderli loro accessibili. Questo comporterebbe per noi non temere il fatto di usare più linguaggi nella nostra pastorale, di conoscere i riferimenti culturali della società in cui viviamo perché la nostra predicazione sia incarnata, frequentare maggiormente i luoghi «informali» dove i giovani si ritrovano per capire cosa cercano, cosa li affascina, cosa li riempie o li svuota nella loro ricerca di senso, e là annunciare la fede.

* Scalabriniano, coordinatore delle attività di pastorale giovanile e vocazionale nell’area europea.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017