La lezione di New York
New York
«Zio Giuseppe, torna casa che qua te si al sicuro». Così gli ha detto la nipote di 7 anni che da Vicenza chiamava lo zio d";America, all";indomani del crollo delle Twin Towers. Ma lui è uno zio speciale trattandosi di un missionario scalabriniano che, dopo 43 anni, si considera un newyorchese a pieno titolo. È un italiano che ha vissuto dagli anni Sessanta ad oggi i tanti mutamenti di New York. Nel quartiere del Greenvillage lo conoscono tutti come «father» Giuseppe Cogo, ma per la sua nipotina, rimane sempre lo zio Giuseppe che spera di riabbracciare presto.
«All";indomani della tragedia "; ricorda padre Giuseppe "; quella vocina che via telefono mi giungeva dall";Italia e mi invitava a tornare a casa, ha esaltato con la sua fresca innocenza, lo spirito missionario che si può ancora trovare in una città moderna come New York».
Oggi più che mai questa città ferita ha bisogno di preti missionari: «Ne hanno bisogno gli italiani, come il variegato popolo della city che ha davanti a sé non solo una tragedia esteriore, ma più ancora delle ferite profonde lasciate nelle coscienze della gente dopo gli attentati. La tentazione di andarsene c";è ed è inevitabile visto il difficile momento che stiamo vivendo, ma non posso togliere le tende proprio adesso che la mia città ha così tanto bisogno di Dio e anche di questi piccoli preti italiani!».
L";11 settembre scorso, la parrocchia di padre Giuseppe è stata tra le prime ad approntare un centro di prima emergenza: «Per cinque giorni "; spiega padre Cogo "; le porte della chiesa sono rimaste aperte giorno e notte per i volontari. In tanti anni trascorsi qui, non era mai successo un fatto del genere!. Premesso che New York non è l";America, il popolo americano è stato colpito nella propria invulnerabilità e nel proprio orgoglio. Per questo gli effetti sono lontani dall";essere capiti e visti nel loro insieme. Non dimentichiamoci che dietro la faccia opulenta di New York ce n";è un";altra: quella della povertà spirituale che si riscontra in una metropoli come questa. Se da un lato la crisi economica appare oggi come la più evidente delle difficoltà dopo l";11 settembre, questo ha lasciato nella società una forte crescita esistenziale. New York non è l";America tradizionale che conosciamo: è la città del mondo!».
Cogo, che di questa città ha visto e conosciuto molto, spiega anche quanto sia cambiata la New York dagli anni della sua gioventù, quando nel lontano 1959 arrivò come cappellano con la sua valigia di cartone, con i paramenti da prete e un breviario. «Allora "; ricorda "; l";emigrazione italiana faceva parte di una ";tragedia"; familiare e personale di quanti erano costretti a lasciare casa e paese per adattarsi a nuove abitudini e costumi. Oggi, invece, non si parla più di emigrazione italiana: coloro che giungono nella ";Big Apple"; sono persone molto più equipaggiate sul piano culturale e professionale di quelle di allora. Non cercano solo fortuna ma sviluppo e disponibilità di mezzi professionali che non trovano in Italia. Non a caso molti italiani scampati agli attentati lavoravano proprio nel centro finanziario delle Torri. Ora il missionario ha l";impegno specifico di assistere l";emigrato non solo sul piano materiale, ma soprattutto su quello spirituale». Per cui trovare un prete italiano in una terra straniera, continua ad essere una prerogativa fondamentale della sua «missione volante» come ama definirla. Nel cuore di Manhattan, oggi vivono solo i più ricchi e i più poveri, in un ambiente dove l";intolleranza è sempre più marcata e violenta!. Anche in questo la tragedia del World Trade Center ha fatto distinzione: «Quasi tutte le persone decedute nel crollo delle Torri - dice padre Cogo ";vivevano nei quartieri bene della periferia». Nella sua parrocchia sono state due le persone, figli di italiani, decedute nell";attentato: «Un";eccezione, considerando il fatto che nella mia parrocchia vi sono per lo più emigrati filippini che si succedono agli italiani molti dei quali oggi hanno una buona posizione sociale e una casa nei quartieri residenziali fuori della città . In questo momento lo spirito ultranazionalistico americano si è messo a fomentare gli animi contro l";emigrazione in generale. Ma non basta dare cento dollari in beneficenza come fanno molti americani per mettersi il cuore in pace con se stessi e il mondo! È troppo comodo dire che gli emigrati sono tutti della stessa pasta dei terroristi». Le prediche di padre Cogo, tenute davanti ad un";assemblea sempre più eterogenea di persone che frequentano la chiesa Lady of Pompei, il cui campanile si confonde con la maestosità dell";Empire State Building, confermano che la New York di oggi è molto più multirazziale di quella di trent";anni fa. Gli americani di questa zona non superano oggi il 40%, mentre il resto della popolazione è in maggioranza asiatica, europea a latinoamericana. È a loro che padre Cogo rivolge una costante assistenza: «Non è chiudendo le porte agli emigrati che si rende giustizia al dramma di questi mesi! L";America da tempo sembra non voler condividere la propria ricchezza con il resto del mondo povero. Non capiva che non ci sarebbe stata pace duratura senza prima aver risolto la questione della fame dei popoli. L";americano si è isolato per troppo tempo dal resto del mondo, dentro un guscio che è stato rotto dalla follia cieca di 17 attentatori».
Intanto New York ha ripreso il ritmo di sempre: quello del business e dello shopping: «È una maschera "; avverte il missionario scalabriniano "; perché le coscienze sono state scosse nel profondo. I volti della gente non sono più gli stessi di prima. Anch";io provo quell";ansia collettiva, quanto mai inevitabile, del futuro. Quest";incertezza che ha ridato una sua precisa identità a questa città , è visibile nel ricco quanto nel povero».
Nella grande capitale del denaro, oggi c";è posto anche per Dio: «La lezione dettata dall";esperienza della morte e del dolore è stata forte per tutti. Si tratta di capire se questa gente ha compreso appieno le parole del Papa: ";Non c";è pace senza giustizia";. L";esempio di una delle mie prime prediche dopo gli attacchi fu la parabole evangelica del ricco epulone. Sia mai che la figura di Bin Laden assomigli a quel povero che non aveva da mangiare. Allora, un mio parrocchiano stizzito mi ha ripreso dicendomi: ";ma noi facciamo tanta carità !";. ";Non basta";, gli ho risposto. ";Dobbiamo imparare a condividere con il resto del mondo. Solo così l";esperienza della tragedia che abbiamo vissuto può trasformarsi in speranza vera per tutti. Per noi americani, come per il resto di quel mondo che chiede giustizia e pane";».