Da Toronto in aiuto all’Etiopia
Andrea Colagiacomo, giovane infermiera di origini italiane, ogni anno lascia il prestigioso ospedale in cui lavora per trascorrere due mesi di volontariato missionario nella clinica di Shashamane.
10 Aprile 2013
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Guardando la tv o discutendo sul comportamento dei giovani, a volte siamo portati a emettere giudizi generalizzati nei loro riguardi, considerandoli viziati e irresponsabili. Osservando oggettivamente l’altro verso della medaglia, però, ci accorgiamo che non c’è niente di più falso di questa asserzione, in quanto i giovani d’oggi sono più che mai generosi e disponibili a lasciarsi coinvolgere in opere di carità, specialmente verso i poveri e i bisognosi. Eccone un esempio.
Quest’estate, una ventina di studenti universitari, divisi in due gruppi, partiranno, a un mese d’intervallo, lasciando la loro comoda Toronto per recarsi a spese proprie in Etiopia. L’obiettivo è portare, in due valigie ciascuno, l’approvvigionamento annuale di medicinali necessari alla clinica missionaria di Shashamane, villaggio dell’Etiopia centrale a circa 250 chilometri dalla capitale Addis Abeba. I medicinali sono stati acquistati a prezzi scontati grazie all’aiuto di diversi enti caritativi. I giovani resteranno in Etiopia un intero mese, vivendo con la popolazione locale e dando una mano ai professionisti della clinica missionaria gestita dai padri della Consolata. In questa esperienza estiva, i giovani canadesi saranno accompagnati da Andrea Colagiacomo, infermiera di 24 anni di origini italiane che lavora all’ospedale Princess Margaret di Toronto. Per il terzo anno consecutivo, Andrea passerà le sue vacanze tra i malati della missione africana.
Msa. Che cosa l’ha spinta a farsi coinvolgere nell’attività missionaria?
Colagiacomo. Sin dalla mia fanciullezza ho sempre desiderato curare i malati e aiutare i bisognosi. Grazie a un’amica che ha lavorato come infermiera volontaria in una missione africana, è nato anche in me il desiderio di dedicarmi a quest’opera umanitaria. Inoltre, vedere in televisione tante persone prive di tutto, mentre noi in Canada abbiamo qualsiasi cosa, mi ha fatto pensare ai miei nonni che sono stati costretti a lasciare l’Italia per sfuggire alla povertà in cui vivevano e per assicurare una vita migliore a se stessi e ai loro discendenti. Questa mia esperienza mi ha motivata a impegnarmi per le persone che soffrono.
Quali sono le condizioni di vita degli abitanti della missione?
Appena metti piede fuori dell’aereo, ti rendi conto dello stato miserabile in cui si trovano gli abitanti di questa nazione. Anche le cosiddette città non sono altro che agglomerati urbani estremamente poveri venuti su senza alcun ordine. Molti edifici sono incompiuti, le strade non sono asfaltate ed è normale vedere bambini che dormono lungo le vie o che chiedono l’elemosina. La maggior parte della popolazione veste indumenti sporchi e stracciati, e non può neppure contare sul necessario per mangiare e bere.
Ma il governo non aiuta queste persone?
Nei villaggi non esiste alcuna forma di governo. Gli abitanti fanno quello che vogliono. Per esempio, gli uomini, se hanno i soldi, possono comprarsi anche tre o quattro mogli, alcune delle quali molto giovani. D’altra parte ci sono persone che muoiono letteralmente di fame, e la maggior parte dei bambini non arriva all’età di 5 anni, perché si ammala di malaria, di disidratazione o di colera, per mancanza di un minimo di igiene. Nei centri più popolati esistono cliniche e qualche ospedale, ma spesso sono sporchi e inadeguati, e per ricevere cure bisogna pagare molto. La gente povera, allora, ricorre piuttosto ai rimedi della medicina tradizionale praticata nei villaggi, e solo in casi disperati si rivolge agli organismi sanitari governativi.
Come sopravvive la gente?
Molti sono impegnati in lavori artigianali o agricoli, perché pochi vanno a scuola e anche quelli che ci vanno, e riescono a terminare le superiori, faticano a entrare all’università. In effetti il governo paga per i corsi universitari, ma una volta ottenuta la laurea si è obbligati a rimborsare i soldi ricevuti. Quello che accade, però, è che appena laureati è difficile trovare un lavoro per pagare i debiti contratti, per cui molti, anziché studiare, preferiscono imparare un mestiere e cominciare subito a guadagnarsi da vivere.
E nei villaggi qual è la situazione?
Molti aspetti della quotidianità sono allo stato primitivo, e così in tanti vorrebbero partire per migliorare la propria condizione, ma non è semplice. La maggioranza non è mai andata a scuola, ed è priva pure di un qualsiasi documento. Ci sono bambini che non sanno la loro età, e a volte neppure i loro genitori la ricordano. Tuttavia tra gli abitanti del villaggio esiste una grande solidarietà: ci si aiuta a vicenda con estrema generosità. Specialmente in caso di malattie o di disgrazie, le donne del villaggio accorrono e si prendono cura del malato o del bisognoso. In qualche modo sono felici, perché sanno accontentarsi, ma meriterebbero una vita migliore, specialmente per quanto riguarda il cibo e la sanità.
Che ruolo esercitano i missionari in queste comunità?
In ogni villaggio vivono uno o più missionari cattolici, che in qualche modo sostituiscono il governo. Quando sorge un bisogno qualsiasi, le persone si rivolgono a loro per essere aiutate e i missionari provvedono per il cibo, i vestiti e l’ospitalità. Essi non ricevono alcun sussidio pubblico, anzi. Anche a motivo di queste difficoltà è bene portare con noi nelle valigie i medicinali destinati alla missione, altrimenti sarebbero sequestrati e non arriverebbero mai a destinazione. I missionari della Consolata che operano a Shashamane, dove vado io, fanno moltissimo per gli abitanti, senza alcuna distinzione tra cristiani e musulmani. I padri gestiscono anche due orfanotrofi. Provvedono al sostentamento, insegnano ai ragazzi a leggere e a scrivere, a imparare un mestiere e a coltivare la terra, cosicché quando lasciano l’orfanotrofio non si sentano perduti, ma sappiano cosa fare per sopravvivere. Quando un giovane frequenta la scuola con profitto, i missionari lo aiutano anche a entrare all’università.
In che modo l’esperienza di volontariato ha influenzato la sua vita?
L’ha cambiata. Non posso dimenticare lo sguardo colmo di rispetto, ammirazione e gratitudine di quanti ho aiutato. Io li amo e mi sento parte di loro. Mi hanno accettata come una di casa. Quando sono lì, si prendono cura di me, mi proteggono, si preoccupano che non mi manchi niente. Mi offrono anche il loro cibo, che io per cortesia accetto. Dovendolo però mangiare con le mani, qualche volta mi sono pure ammalata, ma questo non mi disturba. Chi entra in contatto con la povertà estrema e il modo di vivere di questa gente non può rimanere indifferente. Certe impressioni restano con te per la vita e ti incoraggiano a darti da fare per alleviare la sofferenza e la tristezza.
Quest’estate, una ventina di studenti universitari, divisi in due gruppi, partiranno, a un mese d’intervallo, lasciando la loro comoda Toronto per recarsi a spese proprie in Etiopia. L’obiettivo è portare, in due valigie ciascuno, l’approvvigionamento annuale di medicinali necessari alla clinica missionaria di Shashamane, villaggio dell’Etiopia centrale a circa 250 chilometri dalla capitale Addis Abeba. I medicinali sono stati acquistati a prezzi scontati grazie all’aiuto di diversi enti caritativi. I giovani resteranno in Etiopia un intero mese, vivendo con la popolazione locale e dando una mano ai professionisti della clinica missionaria gestita dai padri della Consolata. In questa esperienza estiva, i giovani canadesi saranno accompagnati da Andrea Colagiacomo, infermiera di 24 anni di origini italiane che lavora all’ospedale Princess Margaret di Toronto. Per il terzo anno consecutivo, Andrea passerà le sue vacanze tra i malati della missione africana.
Msa. Che cosa l’ha spinta a farsi coinvolgere nell’attività missionaria?
Colagiacomo. Sin dalla mia fanciullezza ho sempre desiderato curare i malati e aiutare i bisognosi. Grazie a un’amica che ha lavorato come infermiera volontaria in una missione africana, è nato anche in me il desiderio di dedicarmi a quest’opera umanitaria. Inoltre, vedere in televisione tante persone prive di tutto, mentre noi in Canada abbiamo qualsiasi cosa, mi ha fatto pensare ai miei nonni che sono stati costretti a lasciare l’Italia per sfuggire alla povertà in cui vivevano e per assicurare una vita migliore a se stessi e ai loro discendenti. Questa mia esperienza mi ha motivata a impegnarmi per le persone che soffrono.
Quali sono le condizioni di vita degli abitanti della missione?
Appena metti piede fuori dell’aereo, ti rendi conto dello stato miserabile in cui si trovano gli abitanti di questa nazione. Anche le cosiddette città non sono altro che agglomerati urbani estremamente poveri venuti su senza alcun ordine. Molti edifici sono incompiuti, le strade non sono asfaltate ed è normale vedere bambini che dormono lungo le vie o che chiedono l’elemosina. La maggior parte della popolazione veste indumenti sporchi e stracciati, e non può neppure contare sul necessario per mangiare e bere.
Ma il governo non aiuta queste persone?
Nei villaggi non esiste alcuna forma di governo. Gli abitanti fanno quello che vogliono. Per esempio, gli uomini, se hanno i soldi, possono comprarsi anche tre o quattro mogli, alcune delle quali molto giovani. D’altra parte ci sono persone che muoiono letteralmente di fame, e la maggior parte dei bambini non arriva all’età di 5 anni, perché si ammala di malaria, di disidratazione o di colera, per mancanza di un minimo di igiene. Nei centri più popolati esistono cliniche e qualche ospedale, ma spesso sono sporchi e inadeguati, e per ricevere cure bisogna pagare molto. La gente povera, allora, ricorre piuttosto ai rimedi della medicina tradizionale praticata nei villaggi, e solo in casi disperati si rivolge agli organismi sanitari governativi.
Come sopravvive la gente?
Molti sono impegnati in lavori artigianali o agricoli, perché pochi vanno a scuola e anche quelli che ci vanno, e riescono a terminare le superiori, faticano a entrare all’università. In effetti il governo paga per i corsi universitari, ma una volta ottenuta la laurea si è obbligati a rimborsare i soldi ricevuti. Quello che accade, però, è che appena laureati è difficile trovare un lavoro per pagare i debiti contratti, per cui molti, anziché studiare, preferiscono imparare un mestiere e cominciare subito a guadagnarsi da vivere.
E nei villaggi qual è la situazione?
Molti aspetti della quotidianità sono allo stato primitivo, e così in tanti vorrebbero partire per migliorare la propria condizione, ma non è semplice. La maggioranza non è mai andata a scuola, ed è priva pure di un qualsiasi documento. Ci sono bambini che non sanno la loro età, e a volte neppure i loro genitori la ricordano. Tuttavia tra gli abitanti del villaggio esiste una grande solidarietà: ci si aiuta a vicenda con estrema generosità. Specialmente in caso di malattie o di disgrazie, le donne del villaggio accorrono e si prendono cura del malato o del bisognoso. In qualche modo sono felici, perché sanno accontentarsi, ma meriterebbero una vita migliore, specialmente per quanto riguarda il cibo e la sanità.
Che ruolo esercitano i missionari in queste comunità?
In ogni villaggio vivono uno o più missionari cattolici, che in qualche modo sostituiscono il governo. Quando sorge un bisogno qualsiasi, le persone si rivolgono a loro per essere aiutate e i missionari provvedono per il cibo, i vestiti e l’ospitalità. Essi non ricevono alcun sussidio pubblico, anzi. Anche a motivo di queste difficoltà è bene portare con noi nelle valigie i medicinali destinati alla missione, altrimenti sarebbero sequestrati e non arriverebbero mai a destinazione. I missionari della Consolata che operano a Shashamane, dove vado io, fanno moltissimo per gli abitanti, senza alcuna distinzione tra cristiani e musulmani. I padri gestiscono anche due orfanotrofi. Provvedono al sostentamento, insegnano ai ragazzi a leggere e a scrivere, a imparare un mestiere e a coltivare la terra, cosicché quando lasciano l’orfanotrofio non si sentano perduti, ma sappiano cosa fare per sopravvivere. Quando un giovane frequenta la scuola con profitto, i missionari lo aiutano anche a entrare all’università.
In che modo l’esperienza di volontariato ha influenzato la sua vita?
L’ha cambiata. Non posso dimenticare lo sguardo colmo di rispetto, ammirazione e gratitudine di quanti ho aiutato. Io li amo e mi sento parte di loro. Mi hanno accettata come una di casa. Quando sono lì, si prendono cura di me, mi proteggono, si preoccupano che non mi manchi niente. Mi offrono anche il loro cibo, che io per cortesia accetto. Dovendolo però mangiare con le mani, qualche volta mi sono pure ammalata, ma questo non mi disturba. Chi entra in contatto con la povertà estrema e il modo di vivere di questa gente non può rimanere indifferente. Certe impressioni restano con te per la vita e ti incoraggiano a darti da fare per alleviare la sofferenza e la tristezza.
Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017