Veneti nel Benelux
Sarà l";indomito spirito d";avventura dei veneziani, discendenti di Marco Polo, che da una piccolissima laguna hanno raggiunto ogni angolo del mondo medievale conosciuto, o l";ancestrale animo dei mercanti in grado di oltrepassare ogni barriera: geografica, culturale e linguistica pur di commerciare con ogni popolo, ma i veneti non sono mai riusciti a restare chiusi entro gli angusti confini della pianura padana.
Sin dal Trecento, la Serenissima ha intrattenuto rapporti commerciali oltre che con il Levante, anche con il cuore dell";Europa, istituendo un gemellaggio con la cittadina di Brugge (l";attuale Bruges) e, nel 1332, un consolato veneziano per tutelare i commerci veneziani dalla concorrenza. Basti pensare che agli inizi di quel secolo, le galee veneziane andavano e venivano con regolarità dal porto di Sluis, secondo una rotta che durava cinquanta giorni. I veneziani trasportavano prodotti tessili, gioielli, spezie provenienti dall";Oriente, e al ritorno portavano a Venezia soprattutto panni fiamminghi.
Dopo la caduta della Serenissima, ovviamente sono mutate le condizioni, e il lungo rapporto commerciale con il cuore dell";Europa è andato via via spegnendosi. Venezia, e i veneti con lei, è stata costretta, suo malgrado, a rinchiudersi nei suoi confini attendendo nuove e diverse opportunità .
Già dalla seconda metà dell";Ottocento rinasce nuovamente nel popolo veneto il desiderio di accedere a nuove risorse, e per svariati motivi inizia a spostarsi in cerca di fortuna e di nuove opportunità . Un fenomeno che si protrae fino agli anni Venti e Trenta del XX secolo, e che interessa il Nord America, il Sud America, l";Australia, e il Nord Europa.
Negli anni immediatamente successivi alla Prima Guerra mondiale, gli italiani "; e tra loro molti veneti "; iniziano a spostarsi, valigia in mano e tanti sogni in testa, verso il cuore dell";Europa, in particolare alla volta del Belgio, per andare a lavorare in miniera.
«È opportuno precisare che la nostra emigrazione ha avuto un carattere prevalentemente economico: era cioè legata, almeno all";atto di partenza, al proposito di ritornare presto o tardi in patria, senza l";idea di integrarsi nel nuovo Paese» "; scrive Serge Vanvolsem, direttore del Centro Studi Italiani";Dipartimento di Linguistica K.U. Leuven del Belgio.
E questa è stata, forse, una delle caratteristiche che i veneti hanno sempre portato con sé: l";italianità . Quasi come se temessero che, lasciandosi alle spalle le nebbiose pianure e i monti imbiancati di neve, potessero smarrire per sempre le loro radici. La storia del fenomeno migratorio mostrerà come i corregionali rientrati si risolveranno a sentirsi spesso stranieri in patria, così come da stranieri in terra straniera erano stati costretti a vivere.
La tragedia di Marcinelle
L";italiano approda in Belgio per calarsi nel cuore della terra a scavare carbone. Una delle pagine più drammatiche della storia dell";emigrazione italiana in Belgio è legata proprio alla tragedia di Marcinelle, nella quale il sangue italiano ha versato un triste tributo: 156 minatori morti nel crollo della miniera.
Dal 1946, con la ratifica del Protocollo, il fenomeno migratorio viene organizzato: 50 mila minatori italiani vengono «censiti», domiciliati a seconda delle possibilità economiche, spesso etichettati a torto come lavoratori di poca volontà . Niente di più sbagliato. In cambio delle loro vite abbandonate in patria e spese nel lavoro in terra straniera, all";Italia sarebbe stata inviata una quantità di carbone calcolata in rapporto al numero di lavoratori inviati. Un nuovo trattato di schiavitù? Forse. Tuttavia il Protocollo del 1946 aveva quanto meno il merito di voler organizzare un fenomeno che fino ad allora era rimasto sotterraneo e confuso, tentando di dare una dignitosa sistemazione ai lavoratori stranieri e alle loro famiglie.
Già . Le famiglie, spesso giovani mogli, con qualche bimbo tenuto per mano e altri in arrivo, destinati a nascere in terra straniera. Di fronte a tutto questo, come restare italiani? «Nelle inchieste da me condotte in passato "; scrive Abramo Seghetto, autore di diverse ricerche sull";emigrazione italiana in Belgio "; emerge sovente la reazione delle donne all";impatto con le baracche in cui dovevano vivere. Giovani, appena sposate, benché povere queste donne sognavano giustamente una casa, forse poco attrezzata, ma bella, dove sarebbero state le regine e l";angelo consolatore del marito e dei figli. Ma poi, trovandosi di fronte ad una realtà così brutale, la loro prima reazione è stata: ";Io qui non ci sto, questa sera ritorno a casa mia";. Invece sono rimaste (...) La loro presenza vicino ai mariti e con i figli è stata un elemento prezioso di sostegno e di equilibrio, rendendo accettabili delle condizioni che, in se stesse, erano disastrose e insostenibili».
Chi è espatriato, ha trovato il modo di restare italiano attraverso l";associazionismo. «La vita associativa vera e propria "; scrive Vanvolsem "; si svolge nelle diverse famiglie costituitesi a partire dalla fine degli anni Sessanta e all";inizio degli anni Settanta. Bellunesi, vicentini, trevigiani, ecc. si sono ritrovati e hanno voluto costituire delle famiglie perché avevano quasi tutti un identico passato da condividere, ricordi da coltivare, tradizioni da mantenere e da trasmettere alle nuove generazioni che le ignoravano».
Dai ghetti ai caffè all";italiana
Se l";emigrazione italiana e veneta verso il Belgio è stata connotata dal lavoro nelle miniere di carbone, in Lussemburgo i veneti sono arrivati solo cent";anni fa per prestare il loro lavoro nelle miniere di ferro e nelle industrie siderurgiche. «Erano 7.432 nel 1900 "; scrive Benito Gallo, scrittore e ricercatore ";, 10.138 nel 1910, 14.050 nel 1930. Giungevano soprattutto dall";Italia del Nord (Piemonte, Lombardia e Veneto), e dall";Italia Centrale (Umbria, Marche, Abruzzo). Numerosi i veneti che si stabilirono soprattutto nelle maggiori città operaie del Granducato tra il 1904 ed il 1913».
Sentendosi disorientati in un Paese diverso, e alle prese con un";incomprensibile lingua diversa, si riunirono spontaneamente in ";quartieri";, poi sempre più simili a ghetti. Ma l";intraprendenza italiana li portò ben presto fuori dalle fabbriche ad integrarsi con la popolazione locale offrendo quanto di più tipico poteva venire dalla loro ";italianità ";: il caffè. Infatti, un";altra delle caratteristiche dell";italiano e del veneto in Lussemburgo, è stata quella di aprire e gestire gli ";italianissimi"; caffè; tra loro i veronesi Ambro Fasoli e Domenico Terreri; i bellunesi Salvatore Cappellari, G. Rech, Giacomo Sagrillo e Baldissera (di Pedavena).
Mentre in Olanda gli italiani seguirono una vocazione decisamente diversa. Furono artefici di una loro storia personalissima rispetto a quella dei fratelli minatori in Belgio, o degli operai nel Granducato. Nel 2000 erano 17.885 i veneti in Olanda. La maggior parte di essi, arrivati negli anni Cinquanta, ha avviato la propria fortuna grazie all";attività gelatiera, importando i raffinati sorbetti e i gustosi gelati dal Veneto e dalla Sicilia. Sono arrivati qui fermandosi in Austria e in Germania, dove ancora oggi il gelato italiano costituisce una fiorente attività . Le generazioni successive sono state in grado di conquistare posti di responsabilità , e oggi sono manager, imprenditori, dirigenti d";industria, docenti universitari, perfettamente integrati, pur senza perdere la propria identità . E l";Olanda, chiamata per svariati motivi geografici, urbanistici, ma anche perché no, socio-economici la «Venezia d";Europa», è stata, forse, l";unico Paese nel quale gli italiani e i veneti sono riusciti ad intessere scambi intensi e reciproci. Strano ma vero, in questo Paese gli italiani non hanno sentito la necessità di organizzarsi in associazionismo. La loro identità veneta vive con loro e viene tramandata attraverso le generazioni tramite le attività lavorative. I veneti qui sembrano proprio sentirsi a casa. Che sia per merito dell";acqua?