I due nemici
Avevano conquistato quella trincea a spese di una macabra carneficina ma da lì, dove la scarpata si faceva più ripida, si erano lanciati disperati per raggiungere il vertice di quella cengia (uno stretto passaggio tra le rocce, nda). Purtroppo, per due volte nel corso dell'estate, erano stati ributtati indietro, rotolando giù con i morti e i feriti.
Quella cengia, quella meta irraggiungibile era importante non solo per gli alti comandi ma anche per gli alpini, perché da lì si sarebbero potuti vedere in faccia quegli obici che da mesi smantellavano Cortina.
Le trincee nemiche erano poco sopra, talora a meno di cinquanta metri; anzi, in precedenza erano state trincee di seconda linea, finché il loro battaglione ne conquistò la prima. Fra le due esisteva anche un camminamento chiuso ai due estremi da robuste palizzate, sorvegliate giorno e notte.
Il battaglione era un misto di Ladini e Friulani delle valli attigue, tutti figli delle stesse montagne, tutti ricchi delle stesse tradizioni. Nella seconda compagnia, Toni da alcuni giorni era divenuto scontroso e taciturno. Pur sollecitato, non si era confidato con nessuno, finché il cauchemar lo aveva spinto a sfogarsi con l'amico Angelo.
Nell'ultima lettera da casa lo informavano di aver saputo che il cognato Franz era padre di un bel maschietto di tre chili e mezzo e che la sua compagnia, composta per lo più da elementi della Valgardena, per motivi di sicurezza era stata dispersa nel Terzo Reggimento Tirolese. La notizia era stata per lui un motivo d'angoscia perché il Terzo Tirolese era per l'appunto quello che stava loro di fronte.
Il capitano che comandava la compagnia era un ufficiale di complemento non più giovane, strappato dal suo ufficio di ragioniere in una cittadina di provincia; voleva la disciplina ma era una persona comprensiva. Informato in via riservata, egli fece finta di non sapere, altrimenti avrebbe dovuto trasferire Toni ad un'altra unità , lontano dai suoi; trasferimento che, in mancanza di motivazioni, poteva essere male interpretato.
Occorre dire che per Toni, Franz era un amico, più che un cognato. Ora moriva dalla voglia di prendere contatto con lui, semmai fosse nelle trincee appena lì sopra. Dopo averci pensato, se ne uscì con alcune frasi d'insulto ad alta voce, rivolte a un generico «Franz» non meglio identificato, cui fecero eco i colleghi vicini. Poco dopo, dall'altra parte giunsero frasi parimenti ingiuriose dall'amico che aveva individuato la voce di Toni. Fu così che, entro quel rosario di contumelie, quegli scambi di cortesie in dialetto locale, facile da intendersi a chi ne aveva padronanza, i due arrivarono allo scambio commovente di informazioni familiari e di sentito augurio, comprese solo da coloro che nutrivano pari sentimenti.
Il Natale si stava avvicinando e con l'inverno ogni azione sarebbe stata rinviata a primavera. Ma la neve tardava a cadere; in un clima eccezionalmente mite, non era caduta che pioggia.
Un giorno, foriero di calamità , giunse in linea il generale comandante il corpo d'armata. Dopo il solito discorso infarcito di retorica e amor patrio, di eroismo e dedizione, comunicò agli ufficiali che, considerata la stagione particolarmente favorevole, si era deciso per un attacco a sorpresa da condurre la vigilia di Natale, nella speranza di trovare impreparato il nemico.
Il morale degli alpini passò da una tranquilla serenità ad una nota di profonda depressione. Unica consolazione: l'invio in trincea di abbondanti mezzi di conforto. Era triste, per loro pensare di dover festeggiare un terzo Natale al fronte, offrendo a quelle montagne un ulteriore contributo di sangue. La sorpresa, fra l'altro, con tutto quel trambusto, sarebbe venuta completamente a mancare, come dimostrava l'alacrità con la quale il nemico andava fortificando le proprie posizioni.
Giunse anche la vigilia con il cappellano indaffarato oltre misura per confessare, fare coraggio e cogliere le confidenze di casa. Anche i più spavaldi erano venuti di nascosto nelle ore piccole per non dare nell'occhio. In tanta tristezza non rimaneva che attendere l'ora cruciale, preceduta da una sbronza colossale per darsi animo prima di buttarsi nella mischia.
Quella notte nessuno chiuse occhio. Solo verso mezzanotte qualcuno osservò direttamente che la pioggia era mista a nevischio; un nevischio che non faceva presa sul terreno, finché il sibilo di alcune raffiche gelide, ben note agli alpini, annunciò un'incombente tormenta. Verso le quattro, il comandante del reggimento si rese conto che era giunta l'ora di informare il comando superiore. Il generale si era assopito dietro un'abbondante dose di sonnifero, nella viva speranza di essere svegliato il mattino dall'annuncio di un successo che sarebbe stato suo personale. Venne invece svegliato anzitempo perché da lassù gli comunicarono che uno strato di neve di quaranta centimetri sempre in crescita aveva dato scacco matto al suo piano strategico. Preso da stizza incontenibile, per poco non prese a pedate il povero attendente che l'aveva svegliato.
Dopo una notte di buriana, quasi inciso lungo un profilo ancora buio dei monti, comparve l'albeggiare luminoso del giorno, in un'aria tersa e serena. Sorse anche il sole, per far brillare quel bianco e vergine mantello che per un giorno almeno cancellava ogni traccia d'odio fra gli uomini. «Pace! Pace! Pace!», pareva dicesse.
La sera arrivò presto e in una notte gelida apparve un immenso scenario brulicante di stelle. Guardando in alto, agli alpini sembrò di udire un canto impercettibile: «Gloria nell'alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà ».
Fu allora che dalle trincee si alzò un dolce canto di casa, quello di Stellutis, cui qualcuno fece eco dalla trincea di sopra. Infine, celati dal buio, da un asse schiodato, due visi affiancati lasciarono cadere dolci lacrime su una robusta stretta di mano e, poiché si sapeva che di là il Natale era più triste, due salami di casa con alcune pagnotte di pane fresco unite a due grossi fiaschi di vino genuino passarono il fronte, e di ricambio si ebbero solo due bottiglie di genziana.
Quando il capitano seppe di quel contrabbando, convocò gli ufficiali subalterni e, urlando perché si sentisse anche fuori, disse che quella era collusione con il nemico e che lui non intendeva finire i suoi giorni in galera, relegato in fortezza; lui voleva il nome dei responsabili per deferirli alla corte marziale. Solo allora gli alpini si resero conto d'averla fatta grossa e, dopo un conciliabolo, furono tutti d'accordo di affidare ad Agostino il compito diplomatico di parlamentare. Agostino era stato promosso caporale maggiore perché aveva superato la terza elementare alla scuola di una coscienziosa maestra di montagna. Egli sapeva scrivere e fare di conto, e la natura l'aveva dotato di una fluida parlantina e di buon garbo.
Egli si mise a ragguagliare il capitano e, in sua presenza, chiese se poteva parlargli in termini confidenziali. Avutane autorizzazione, così si espresse: «Signor capitano, noi suoi alpini sappiamo di averla fatta grossa. Ma sa... per noi è Natale come lo è anche per lei. Non volevamo tradire il reggimento, ma solo celebrare alcune ore di pace. Lei sa che i suoi alpini sono padri e figli tutti di una stessa terra, tutti ragazzi di coscienza. Se lei è d'accordo, di questa faccenda nessuno parlerà ; e per tutti rimarrà in segreto un bel ricordo di Natale». Al capitano, commosso, si inumidirono gli occhi prima di stringergli la mano. Ecco perché questa storia per anni rimase celata e solo ora la si può raccontare.