Il mese delle rose
Quando ero piccolo, non appena nel calendario si arrivava dalle parti del mese di maggio, sentivo sentenziare attorno a me che questo era il mese delle rose. Non ero evidentemente un esperto botanico, e anche la mia devozione mariana era addivenire, per cui, in assenza di altre più edotte spiegazioni, traevo le mie belle e assai interessate conclusioni: cadendo il mio compleanno, guarda un po’!, proprio nel mese di maggio, e ciò avveniva grosso modo ogni anno, vuoi vedere che la rosa in questione ero proprio io? Insomma, che la mia nascita era stata, per i miei genitori e non solo, come lo sbocciare di una rosa a lungo attesa nel giardino segreto di qualche abile giardiniere? Che poi la mamma mi ripetesse spesso che ero il bambino più bello del mondo, non otteneva altro che rinforzarmi nella mia convinzione.
Le prime confidenze tra amichetti, scoprire deluso che anche loro erano i più bei bambini del mondo per le loro rispettive mamme; la frequenza alla recita dei rosari serali a maggio, quando l’intera contrada, grandi e piccoli, si stringeva attorno alla santella, come noi nel bresciano chiamiamo i capitelli mariani; la famigerata prima declinazione latina «rosa rosae ecc.»; ma le stesse vicende della vita, tutto ciò contribuì alquanto a ricalibrare il tiro e a ricalcolare la direzione. Diciamolo pure: a infrangermi senza pietà l’illusione. E a dare alle rose, intendo quei simpatici fiori con le spine, quello che è delle rose. E, a dire il vero, a Maria, madre di Dio e di noi suoi figli, rosa mistica, quello che è di Maria: appunto, il «rosario». E magari pure, giusto per continuare ad aggirarsi in giardino, quelli che almeno ai miei tempi si chiamavano significativamente «fioretti»: piccole buone azioni quotidiane e molto semplici, a portata di noi bambini, per marcare di bene un mese speciale. Eppure sono recidivo, e anche dopo tanti anni continuo a pensare che un po’ la faccenda della rosa continui a riguardarmi. Mi ostino a credere che ognuno di noi, nessuno escluso, abbia diritto di sentirsi una rosa sbocciata su questa stupenda terra che, come cantava san Francesco, «produce diversi frutti con coloriti flori et herba».
Come tale ciascuno dovrebbe sempre essere desiderato e accolto nella gioia e nel ringraziamento a Dio! Che non sta a noi e a i nostri gusti talvolta bislacchi decidere se una rosa sia o meno degna di esserci, che si arrampichi su un ardito pergolato o si innalzi da terra solo cinque centimetri. Perché se non c’è, non è semplicemente una rosa in meno: è tutto il giardino che è più povero. Anche se è una rosa fragile, da trattare con tutte le attenzioni. Anche se basta un refolo di vento per perderne qualche petalo. Non siamo ingenui. Sappiamo bene che ci sono anche le spine: talvolta servono per difenderci, talvolta per fare del male ad altri. E talvolta qualcuno ne ha fatto a noi. Dobbiamo imparare a conviverci. Perché comunque ci sono vagonate di colori e sfumature, profumi intensi o per nasi raffinati, da spandere e da catturare con i nostri sensi. Ce n’è per tutti: per gli insetti impollinatori, e per chi è abile a comporre bouquet. Ce n’è anche per gli innamorati, magari pure rigorosamente rosse. Ho visto boccioli intirizziti mai nati del tutto, ma testardi, sfidare le prime nevi. E quando non ne restava più niente, c’erano ancora le bacche – almeno quelle della rosa canina, il cui nome, nel mio dialetto, è indicativo, ma che per decenza vi risparmio – buone per una tisana scaccia malanni. Lasciatemi allora nella mia pia illusione: di essere una rosa. Che ognuno di noi sia una rosa. Di esserlo da qualche parte, negli affetti della persona amata, nello sguardo dei figli, nel bene compiuto, nelle mani callose dei lavoratori, nei sogni degli angeli. Almeno nei progetti di Dio, che di giardini se ne intende dal tempo della creazione.