Corpi di Cristo
Durante la visita ad alcuni dei campi per profughi siriani al confine tra Libano e Siria, ho avuto la grazia di conoscere tante persone speciali. A loro modo, ognuno «fuori dal normale».
A cominciare dagli stessi profughi: uomini e donne, adulti e bambini, i cui nomi non sono riportati in nessuna anagrafe, se non nelle statistiche che tanto inquietano e turbano i sogni di benessere del nostro Occidente. Ma sono ben scritti sui palmi delle mani di Dio (Is 49,16)! E io non mi sento all’altezza del sorriso di questi bambini, ma nemmeno del dolore e delle faticose speranze dei loro papà e mamme: è faccenda troppo divina per me.
E poi i frati del luogo, che di grigio hanno solo il saio francescano. E per tutto il resto hanno sogni e progetti con tutti i colori dell’arcobaleno, e anche di più. Non fanno nulla di speciale, non gli daranno mai nessun premio. Però stanno in mezzo alla gente, e alla povera gente, come a san Francesco sarebbe molto piaciuto e come sant’Antonio fece per tutta la vita.
Ma è soprattutto di un volontario che mi ricordo con tanta gratitudine al Signore, tra l’altro membro dell’Ordine francescano secolare, il braccio laicale della famiglia francescana.
Sono sicuro che come lui ce ne siano molti altri in giro per le nostre comunità e nelle nostre città: altrettanto anonimi, non si aspettano il nostro grazie ma puntano più in alto. A Dio. Di lui i frati mi dicono che è molto generoso e bravo, anche se non sempre frequenta la santa Messa. Lo vedo in azione: gli occhi luminosi che cercano quelli della persona che ha di fronte, che sia una vecchietta ultranovantenne che vive da sola con il rosario in mano, piuttosto che un piccolo profugo siriano di 9 anni che ogni giorno cerca di guadagnare qualche soldo vendendo fazzoletti e barrette di cioccolata ai passanti (e il nostro amico volontario di questa cioccolata ne ha colmi i cassetti); le mani che abbracciano o discretamente accarezzano le spalle di ammalati e poveri; le parole centellinate e dosate, come tra persone visitate troppo dal dolore è sufficiente. Ciò basta a giustificare l’eventuale scarsa partecipazione a Messa? Quanto «corpo di Cristo» tocca quotidianamente questo volontario? Quante volte al giorno obbedisce al comando di Gesù di «fare questo in sua memoria»? Se, chiaramente, con queste parole pronunciate all’ultima cena, Gesù non intendeva solo la ripetizione all’infinito delle Messe, ma l’essere resi anche noi abili a fare ciò che lui in quel momento stava facendo: dare la vita, darla gratuitamente, darla perché chi ne ha bisogno ne abbia di più. Perché la vita non sembra essere stata distribuita tanto equamente tra di noi, e da quelle parti ci vuole poco per convincersene.
Di fronte a lui provo persino vergogna. Perché lui di professione non fa il «buon samaritano» né passa le sue giornate in cerca di malcapitati ai bordi delle strade. Non è un «bounty killer» del bene. Vive la sua vita. Ha una sua famiglia. Gestisce un negozietto di prodotti elettronici. Non mi pare, a dire il vero, che nuoti nei soldi come Paperon de’ Paperoni. Ma fa quotidianamente i conti con la realtà che gli attraversa la strada: se ne lascia cambiare i piani, accetta imprevisti e scocciature. Non se ne va a cercare Dio solo lì dove sa con certezza che c’è, in chiesa, ma accetta il rischio che lo stesso Dio gli capiti tra i piedi ovunque, in qualsiasi momento della giornata. In posti dove questa non è assolutamente scontata, crede davvero alla fraternità tra tutti gli uomini: «Non io – nuova strana all’udito, / la maestà del plurale: noi» (Marina Cvetaeva).
La memoria grata per tutti questi fratelli ci aiuti a vivere con diversa intensità la festa del nostro grande sant’Antonio!