Francia. In onore delle operaie italiane
Nella cittadina di Norgent-sur-Marne, alla periferia di Parigi, è stata inaugurata una statua dedicata alle operaie italiane delle locali fabbriche di piume, le cosiddette plumassières. Alta due metri, scolpita in bronzo dall’artista Elisabeth Cibot, la statua ha provocato proteste da parte delle connazionali che vivono in Francia. Il volto della plumassière, infatti, riproduce i lineamenti di Carla Bruni, moglie dell’ex presidente francese Nicolas Sarkozy. Grembiule da lavoro, stivaletti a mezzo tacco, la figura tiene tra le braccia una grande piuma di struzzo. «Ma cosa c’entra con il nostro lavoro in fabbrica?» hanno commentato le connazionali, dopo aver atteso invano la presenza di Carla Bruni all’inaugurazione del monumento. Per non entrare in polemica, preferiamo credere che il sindaco di Nogent-sur-Marne con questo monumento – che è costato ai cittadini 90 mila euro – abbia voluto omaggiare il lavoro svolto da tutte le operaie italiane in Francia. Un lavoro durato oltre un secolo, che ha contribuito al benessere economico del Paese e al suo processo multiculturale.
Oggi sono oltre 163 mila le cittadine italiane residenti in Francia (su un totale di 348 mila connazionali), ma il numero di coloro che hanno attraversato le Alpi dal 1870 a oggi supera largamente il milione. Bene inserite nella società francese, queste donne non dimenticano la storia e i sacrifici di chi le ha precedute. Le prime italiane a emigrare furono le balie bellunesi, le lavandaie friulane e le domestiche trentine. Quindi, le operaie e le cameriere provenienti da ogni regione, che si adattarono a lavori malpagati e talvolta pericolosi. A Marsiglia c’erano le setaiole impiegate nella fabbrica Garnier, apprezzate dai padroni perché non sindacalizzate.
In Lorena le italiane lavoravano nelle confezioni, nelle vetrerie e pure nelle cartoucheries, dove preparavano a mano esplosivi da usare in miniera. Ad Auboué, nel Meurte-et-Moselle, il 6 settembre 1930 una fabbrica di cartucce saltò in aria e tredici donne perirono nell’incendio: solo una di loro non era italiana.
Durante la seconda guerra mondiale, mentre gli uomini combattevano al fronte, molte connazionali sostituirono i meccanici, i tornitori, i fabbri o i fonditori in fabbrica. «Ho cominciato a lavorare a 14 anni: partivo alle quattro del mattino e andavo fino a Basse Jutz – ricorda Lina Armanini Bortolussi –. I tedeschi mi mettevano davanti una bombola d’ossigeno e gli occhiali sugli occhi. Ero obbligata a saldare bidoni di benzina, se non volevo andare in Germania. A 16 anni lavoravo anche di notte, in un’acciaieria. Il ferro, in blocchi di quintali, era molto caldo; io dovevo tagliare il primo pezzo che usciva. Sotto di me stavano gli uomini con le tenaglie. Era pericoloso, se non fossi stata precisa avrei anche potuto rischiare di ammazzarli».
Con coraggio e determinazione, dunque, le lavoratrici italiane hanno contribuito al benessere della Francia. Ecco perché in futuro vorremmo vederle rappresentate in altri monumenti, magari senza piume di struzzo e con un volto anonimo, uno di quei volti comuni di chi ha dato tanto per il Paese che le ha accolte.