New York Tragedia italiana
New York
Chissà se lo registreranno i libri di storia. Ma per noi, per tutti noi che abbiamo visto le Torri Gemelle di New York sbriciolarsi in una limpidissima mattina sotto l";urto di due aerei-kamikaze, la storia è cambiata davvero, e per sempre, l";11 settembre 2001. Perché in quel momento ci siamo resi conto, di colpo e brutalmente, quanto illusorie fossero tutte le nostre sicurezze, e quanto artificiale fosse il senso di invincibilità che avevamo finito per coltivare, sotto la spinta di un benessere senza precedenti e di un progresso scientifico e tecnologico senza eguali.
Migliaia di persone sono morte, una città e una nazione intera sono state messe in ginocchio. Chi ha avuto modo di raggiungere New York, nei giorni immediatamente successivi alla tragedia, ha potuto rendersi conto di persona di quanto profondo sia stato lo choc che ha colto gli abitanti della città . Le torri gemelle erano il cuore economico e finanziario di New York, quindi degli Stati Uniti, quindi del mondo: tra persone che ci lavoravano direttamente e che le frequentavano per vari ragioni, ogni giorno ruotavano in quella zona più di centomila persone. E le torri facevano parte del panorama della città , alte com";erano più di quattrocento metri, oltre cento piani: le si poteva vedere da qualsiasi punto.
Per giorni e giorni, i parenti degli scomparsi hanno girato per la città affiggendo manifestini con le foto dei loro cari, sperando à purtroppo inutilmente à che fossero riusciti a mettersi in salvo da qualche parte. E per giorni e giorni New York è rimasta sotto choc, con le strade deserte, i ristoranti e gli alberghi vuoti, la gente smarrita.
Ma perché, come hanno detto in tanti, questa tragedia cambierà la storia? Perché, quell";11 settembre, è stata dichiarata una guerra assolutamente nuova ed inedita: non più un Paese contro un altro, com";era successo ad esempio dieci anni prima in occasione della Guerra del Golfo contro l";Iraq dopo l";invasione del Kuwait; ma un terrorismo ramificato ed esteso, diffuso dappertutto e in grado di colpire dappertutto. Mai gli Stati Uniti, nella loro storia, avevano conosciuto una guerra in casa: quella mattina si sono svegliati di colpo con un incubo. E oggi si sentono indifesi, perché il terrorismo ha dimostrato di potere e sapere colpire dovunque: il rischio è di altri attentati, magari più striscianti ma non meno micidiali, portati con armi chimiche ad esempio nella metropolitana o in un grande centro commerciale. L";attentato dell";11 settembre ha prodotto un piccolo miracolo, è vero, nel senso che tutti i Paesi del mondo, anche ex nemici come America e Russia, si sono trovati uniti dalla stessa parte nel dichiarare guerra al terrorismo.
C";è tuttavia un vantaggio: la brutalità dell";attentato di New York ha fatto si che anche buona parte del mondo musulmano si sia schierato con gli Stati Uniti e con l";Occidente. C";è anche un altro cambiamento profondo provocato dall";attentato di New York, e riguarda la nostra vita di tutti i giorni. Dovremo rassegnarci a una minore libertà , a maggiori controlli, a un cambiamento di abitudini. La sicurezza imporrà prezzi salati, e non soltanto sui voli aerei: girare in treno o in macchina, andare a una partita allo stadio, frequentare un cinema, andare a fare acquisti in un centro commerciale, sono diventati comportamenti a rischio, che richiedono da parte delle autorità attenzioni e precauzioni inedite. E già un primo impatto c";è stato, con la disdetta di molte prenotazioni per le vacanze natalizie e di fine anno; ma non è che l";inizio.
Eppure, rimanere barricati in casa non è possibile, né metterebbe comunque al riparo da attentati: l";impiego di sostanze chimiche o biologiche è in grado di abbattere qualsiasi barriera. Ma soprattutto, come ha sottolineato fin dalle prime ore dopo l";attentato il sindaco di New York, Rudolph Giuliani, chiudersi in casa sarebbe darla vinta al terrorismo, che si propone prima di tutto di seminare la paura. Non resta dunque che riprendere, sia pure a fatica, la vita di tutti i giorni: scoprendo magari che abbiamo davvero bisogno l";uno dell";altro, dopo una troppo lunga stagione in cui abbiamo finito per sentirci stranieri e soli anche nelle nostre città .
Italoamericani a «Ground Zero»
Da ragazzo, nel suo Friuli, ha conosciuto partigiani e tedeschi, e perfino i cosacchi. A 16 anni è emigrato negli Stati Uniti, e ne aveva 20 quando l";hanno mandato a combattere in Corea dove ne ha passate di tutti i colori. «Ma mai, in tutta la mia vita, ho visto qualcosa di più tremendo della scena che mi si è presentata alle torri gemelle di New York, quando un amico mi ha portato sul posto e mi ha fatto entrare: ho resistito pochi minuti, poi sono dovuto scappare».
È scosso nel profondo quando rievoca la tragedia dell";11 settembre, Marcello Filippi, che oggi a New York presiede la Famee Furlane, la comunità che raccoglie gli emigrati della regione, e che ogni venerdi si ritrova per rinnovare i legami comuni e con la patria lontana. E con lui sono scossi tutti gli altri, vecchi o giovani che siano. Marcello è uno dei più anziani: suo padre fu tra i primi a sbarcare oltre Atlantico, nel 1921; subito dopo la guerra fece arrivare anche il figlio.
Le parole di Marcello sono emblematiche: non c";è una persona, a New York, che non si sia sentita toccata nel profondo dall";attentato, quale che fosse la sua razza, la sua fede, la sua patria d";origine. Conferma Gaspare Pipitone, siciliano trapiantato da trent";anni nella città : «Questa tragedia ci coinvolge tutti. Oggi non ci sono italiani, polacchi, irlandesi, pakistani, messicani. Oggi ci sentiamo tutti americani, tutti uniti nel dolore». E Filippi ne spiega anche le ragioni: «Questo Paese ci ha sempre rispettato, e noi lo rispettiamo».
Loro sono qui da una vita, ormai. Ma la pensano e la vivono allo stesso modo gli italiani che sono arrivati da poco. Come Francesca Da Rin, veneta: «Sono qui da cinque mesi, per lavoro, e all";inizio ero tentata di tornare a casa perché non è facile ambientarsi. Ma adesso che è capitata questa tragedia, non me la sento proprio di andarmene: mi sento una di loro, voglio condividere con loro questa esperienza». Un sentimento ribadito da Maurizio Maniscalco, marchigiano che a New York guida il gruppo di Comunione e Liberazione: «È un Paese di cui non si può condividere tutto, ma è anche un Paese che non si può non amare, per la sua carica vitale e la sua apertura. Oggi ci sentiamo tutti americani, tutti assieme, tutti uniti nel dolore, nella preghiera e nella speranza».
Giorgio Radicati, console italiano a New York, conferma che questo è il comune sentire degli italiani che vivono nella città , da tanti anni come da pochi mesi: «Non ha senso parlare di un gruppo italiano separato dal resto. Sia chi ha conservato la cittadinanza italiana, sia chi ha preso il doppio passaporto, la pensa allo stesso modo. Anche perché a New York quasi tutti si sono inseriti davvero, sia che svolgano un";attività di rilievo, sia che si dedichino a lavori più modesti. Tanti di loro si sono impegnati con grande generosità nell";opera di soccorso e di volontariato fin dalle prime ore». Non va dimenticato tra l";altro che sono di origini italiane il sindaco di New York, Rudolph Giuliani (abruzzese) e il governatore dello Stato, George Pataki (calabrese).
Quello che vale per gli italiani, vale per tutti gli altri gruppi etnici, che sentono d";altra parte New York come la loro città , dove tutti possono avere una chance. E che questa sia una zona franca del mondo, lo dimostra purtroppo anche la cruda statistica della tragedia dell";11 settembre: sotto le macerie delle Twin Towers sono rimaste persone di oltre sessanta Paesi diversi. Accomunate da una morte crudele.