La tigre di Cape Canaveral
«Credo che il maggior merito dell";esplorazione spaziale sia stato quello di aver dato all";umanità un obiettivo comune, un motivo d";orgoglio e di esaltazione che non conosce frontiera. L";impresa di Armstrong, Aldrin e Collins sarà sempre ricordata non come una conquista degli Stati Uniti, ma di tutti gli uomini». Erano parole romantiche quelle che Rocco A. Petrone affidava ai rarissimi cronisti capaci di avvicinarlo nell";ormai lontano luglio del 1969. Alla vigilia di un evento che avrebbe cambiato le pagine della storia umana, lui sembrava calmo e non tradiva emozioni, mantenendo fede al soprannome che gli avevano affibbiato gli amici della Nasa. Per tutti, Rocco era il «computer» o meglio il «computer con un";anima» perché in quell";uomo coabitavano inflessibile tenacia, una memoria prodigiosa e un approccio umano verso le grandi imprese dei suoi amici cosmonauti.
Sono passati 35 anni da quella esaltante cavalcata nello spazio, e Rocco Petrone è uscito di scena dalle imprese spaziali. Oggi vive in California. «Quando mio figlio mi domandava perché ero sempre assente "; ricorda Petrone "; io gli parlavo delle grandi conquiste dell";uomo e dello straordinario privilegio che lui e milioni di persone sparse nel mondo avrebbero avuto nell";assistere alla conquista della Luna. Soffrivo ma non ho mai avuto dubbi. In otto anni di preparazione, dai razzi Saturno ai primi lanci di Apollo ho accumulato più esperienza tecnologica di quanta una persona normale ne faccia in tutta la vita, e arrivai all";appuntamento sicuro di poter contare su una squadra eccezionale».
Il terzogenito di un carabiniere entra al MIT
Nato nel 1926 a New Amsterdam, vicino a New York, Petrone non fu un semplice protagonista di quei giorni gloriosi dell";era spaziale. Rappresenta ancora oggi uno dei massimi protagonisti dell";astronautica, capace di esaltare il progresso umano nelle più ardue sfide con l";Universo. Figlio terzogenito di un carabiniere nato a Sasso di Castalda, in provincia di Potenza, che si reinventò un lavoro negli Stati Uniti, nel settore dei trasporti, Rocco aveva solo sei anni quando suo padre morì. Fu il cugino (docente a soli 30 anni), che aveva conosciuto quanto lui i patimenti della fame, a intuirne le potenzialità per la matematica e ad indirizzarlo agli studi tecnici. Dopo gli ottimi voti scolastici, Petrone partecipò ad un concorso per entrare nella prestigiosa Accademia militare di West Point; concorso che vinse, nonostante il grave «handicap» delle origini italiane: siamo nel 1943, in piena Seconda Guerra mondiale.
«La mamma e gli zii ci tenevano molto a che la prima generazione americana dei Petrone facesse strada, e l";ingresso all";Accademia mi diede una nuova identità , nonostante odiassi il militarismo», ricorda ancora. Dopo il servizio militare in Germania, Petrone si iscrisse al celeberrimo MIT di Boston. Davanti a lui si schiudevano le porte della carriera militare, ma c";era anche la remota possibilità di uscire dalla divisa per entrare nei progetti spaziali. Affascinato dalle tecnologie aeree e dai missili, ma contrario agli impegni militari, Petrone colse al volo l";opportunità , e in due anni conseguì la laurea in Ingegneria meccanica per poter far parte del Progetto Redstone e della squadra di Von Braun e Debus, scienziati tedeschi riconvertiti alle scienze aerospaziali.
«Furono anni indimenticabili. Eravamo tutti amici e tutti convinti che mai e poi mai un missile avrebbe potuto portare l";uomo sulla Luna, io per primo. Quando arrivammo nel 1953, Cape Canaveral era solo una landa desolata con una carovana di zingari e tante zanzare».
Divenuto maggiore, Petrone fu assegnato allo Stato Maggiore a Washington, ma a toglierlo dalla naftalina ci pensò il presidente John Kennedy. Quando chiese a Kurt Debus se fosse possibile inviare un americano sulla Luna entro il 1969 questi rispose: «Sì, a patto che mi diate un certo Rocco Petrone che adesso si annoia in un ufficio del Pentagono».
La tragedia dell";Apollo 1
Rocco Petrone è entrato nella leggenda della conquista dello spazio progettando le rampe di lancio, mettendo in orbita satelliti e astronavi per migliaia di tonnellate, dirigendo il lancio dei razzi del programma Saturno e Apollo, e guadagnandosi la fama di duro. Tutti gli anziani tecnici della Nasa, lo avrebbero ricordato negli anni sempre intento ad interrogare, uno per uno, i suoi 150 tecnici addetti alle manovre, con domande formulate con meticolosa precisione cui bisognava rispondere con altrettante risposte o con il completo riesame del problema.
«Lo chiamavano ";tigre"; per i suoi interrogatori "; ricorda Tony Reichardt di Air&Space Magazine "; ma erano indispensabili. La lista delle operazioni che bisognava eseguire sul solo Modulo lunare (il famoso ragno ";Aquila"; che atterrò sul suolo lunare) per essere sicuri che tutto funzionasse a dovere, era grande quanto il libro della Bibbia, e ogni riga di questo libro significava una giornata di lavoro. Non potevano esserci distrazioni, pena il tragico fallimento dell";intera missione».
Un fallimento che l";ormai pensionato ingegnere poté toccare con mano, in prima persona, durante le tragiche prove di lancio dell";Apollo 1, quando nel 1967 vide bruciare, sul proprio schermo a circuito chiuso, gli astronauti Grisson, White e Chaffee, che pagarono il prezzo di un";incredibile leggerezza tecnica. Da allora il «tigre» non permise più alcuna presunzione da parte di ogni singola pedina del programma.
«Nei tanti anni passati in sala comandi, tutti mi chiedevano se ero stato io a premere il bottone che ha portato l";uomo sulla Luna. Ho sempre ripetuto la risposta di Eisenhower: il merito è di tutti coloro che hanno preso parte all";impresa. Io mi sono limitato a controllare quello che facevano gli altri. Ma se la spedizione si fosse risolta in un disastro, la colpa sarebbe stata senz";altro del sottoscritto».
Quel 20 luglio 1969 andò tutto bene, e valse al colonnello di Sasso di Castalda la promozione a direttore del programma Apollo, a Washington, al posto del leggendario Samuel Philips.
«Quando Apollo 11 sbarcò sulla Luna ricevetti tantissimi attestati d";affetto dai miei parenti italiani. E in tanti anni di vita ricordo sempre il mio primo viaggio fatto in Italia (ne sarebbero seguiti altri quattro, ndr ). L";ultimo tratto dovetti farlo in un taxi azionato a manovella. Quando arrivai a casa di mia nonna, rimasi interdetto dalla sua indifferenza, e scoprimmo insieme che la lettera spedita due mesi prima per farmi riconoscere e presentarmi, arrivava con lo stesso taxi che aveva trasportato me. Da allora non riuscii mai più a dimenticare di essere figlio dell";Italia, nonostante non abbia mai frequentato associazioni e comunità italiane negli Stati Uniti».