Quei bambini nell'isola dei dimenticati
Chiudo gli occhi e penso al Vietnam, al Vietnam che ho visto io. Mi sovvengono due concetti: il «fuori» e «il dentro». «Fuori» è il caos di Hanoi, con le sue vie brulicanti di volti e i suoi milioni di motorini che si guadagnano la strada a clacson spiegato. Il «dentro» è un luogo fuori dal tempo e dallo spazio, circondato da due cinta di mura, dove domina incontrastato il silenzio e il ronzio degli insetti. «Fuori» è il verde acceso delle risaie, la vita operosa dei poveri villaggi, «dentro» è il tempo che passa senza storia, l’immobilità dei corpi consumati dalla lebbra. Sono passato attraverso questi due mondi in un pugno di ore e sono rimasto segnato, credo per sempre.
Mi hanno chiamato in Vietnam i miei confratelli per un progetto a favore dei malati di lebbra a Thai Binh, villaggio a 250 chilometri dalla capitale, dove c’è la colonia di Van Mon, un vecchio lebbrosario, che ancora ospita 900 malati. «Vieni – mi hanno detto – ci serve la tua esperienza». E sono andato in buona fede, credendo di sapere. Alle spalle avevo 30 lunghi anni di lotta alla lebbra in Ghana, dove ero giunto per primo da giovane missionario. Conoscevo il nemico, l’avevo guardato negli occhi più volte, quando ancora non era curabile. Per la gente era un fato, una maledizione, la colpa dei padri che ricadeva sulla discendenza. Credevano che un corpo sfigurato, ferito, mutilato fosse l’involucro di un’anima nera. Un tabù che segnava una vita per sempre. L’ammalato si isolava, si abbandonava alla sua malattia, diventava cinico e aggressivo. Ed io di fronte a lui combattevo tra il mio sconcerto e il suo dolore. «San Francesco di fronte al lebbroso – mi dissi – forse ha provato ciò che sto provando io. Non è facile abbracciare il povero e l’ammalato, non è facile superare i propri fantasmi e le proprie paure, scorgere l’immagine e la somiglianza di Dio, oltre ciò che si vede». Poi è arrivata la cura, quella vera, che fa scomparire la malattia e previene le mutilazioni ma a che serve se sei un maledetto? Ci sono voluti tanti anni di accompagnamento per far diventare la lebbra una malattia come tutte le altre. Una malattia per giunta curabile a domicilio, senza reparti e ghetti, vivendo in mezzo agli altri.
Ora di fronte alle due muraglie di Van Mon, tutto il mio vissuto diventava nulla, come se il tempo non fosse mai passato. Nell’atmosfera immobile, i varchi al lebbrosario erano senza cancelli, ma nessuno osava entrare né uscire. Ero nel limite dell’isola grigia che separa i malati dai sani come se fosse un girone dantesco. Il «dentro» lontanissimo dal «fuori». Ho stracciato le carte dei miei progetti pensati a tavolino e sono entrato a Van Mon come un novizio.
Mi ha accolto un direttore gentile ma guardingo. Io prete, lui ateo, ufficiale di un governo comunista. Una storia più grande di noi ci pesava addosso: decenni di diffidenze verso ogni fede. Mi aspettavo un «che vuoi da me prete?». E invece dopo tanto discorrere insieme, l’ateo mi disse: «La religione e i volontari sono importanti per la mia gente, in fondo di anima e di corpo siamo fatti». Venivamo da mondi diversissimi, eppure una pietas comune ci trascendeva.
A Van Mon c’è un medico e il governo passa una somma di circa 9 dollari al mese per ogni ospite. Non è facile assicurare con queste risorse adeguato cibo e assistenza. Ma ciò che fa più male è l’abbandono affettivo, la sensazione tremenda di essere all’ultimo posto nel mondo. Bop aspetta una visita di suo fratello da decenni, l’hanno messo qui dentro a nove anni e da allora ha visto la sua famiglia una sola volta. Ora di anni ne ha settanta, la lebbra l’ha sfigurato, l’ha reso cieco e storpio. Aspetta l’altra vita per rivedere il sole. Un’anziana minuta, gli arti consunti, sta sdraiata sulla stuoia: «Su questo giaciglio è morta la mia unica amica. Spero che il Signore venga a prendere anche me». Delle camerate piene di letti e di corpi sfigurati, mi consola solo il senso di dignità che sprigiona dalle poche cose ordinate con cura. Ogni letto è come una piccola casa, per alcuni quasi un nido, una culla, dove si sta tutto il giorno rannicchiati a immaginare il verde delle risaie fuori dalle due muraglie. Mi accorgo, ne ho ormai l’esperienza, che nessuno di loro è ancora malato. Sono tutti, come si dice in gergo «casi bruciati», la malattia è passata, lasciando le devastazioni e le gravi disabilità. Non è quindi la lebbra che bisogna curare, ma le sue conseguenze nell’anima e nel corpo.
Il verde e il grigio
Ma ciò che più mi spiazza sono i bambini. Li vedi girare in questo luogo da vecchi, naufraghi in quest’isola grigia. Sono circa 60, visibilmente tutti sani, hanno dai 2 ai 14 anni, sono i figli, molto più spesso i nipoti degli ammalati, abbandonati dai genitori andati lontano in cerca di lavoro. D’altronde qui nessuno segnato dalla lebbra potrebbe mai avere un futuro. Non esiste una medicina efficace contro il pregiudizio. Tra tutti mi attira una bimba, Vivian, di circa 10 anni l’unica sfigurata in volto, la pelle raggrinzita. Mi dicono che non è lebbra ma probabilmente una malattia causata dall’agente orange, una sostanza usata dagli americani durante la guerra (1960-1975). La madre, una malata di lebbra, l’ha abbandonata qui insieme a suo fratello gemello, che ha lo stesso male. E lei nel suo buio affettivo ha trovato un amico, forse un surrogato di padre. È un uomo taciturno e solo, dallo sguardo tristissimo, accartocciato dalla lebbra e dagli anni. Lo chiamano Bangkok quasi per scherno perché viene dalla Tailandia ed è straniero. «Un giorno – mi racconta un mio confratello, Joseph, che viene spesso qui in missione – la piccola Vivian era irrequieta e dava fastidio a tutti. Con lei in braccio mi sono seduto vicino a Bangkok. Lui è rimasto impassibile, come sempre. Ma ho notato uno sprazzo di luce nei suoi occhi. O forse mi è solo sembrato. Da quel giorno, quando Vivian gli si avvicina, la guarda a lungo e la prende per mano. Stanno così per molto tempo, senza parlare». Vivian si calma e Bankok ora ha un piccolo spazio verde nel grigio di Van Mon.
Osservo Vivian, comprendo quante storie spezzate ci siano qui dentro. Quante famiglie sgretolate. Quanti affetti distrutti e persi. Mi chiedo che cosa possiamo fare noi frati per loro, per tutti loro. Occorrono maggiori risorse materiali e sanitarie. Certamente. Ma occorre soprattutto un ponte tra il «dentro» e il «fuori», una realtà che riapra gli orizzonti e riporti il verde delle risaie vietnamite nel cuore grigio di Van Mon.
Io e l’ateo ci guardiamo negli occhi: vogliamo entrambi la stessa cosa.
Il progetto
Il «ponte» di cui parla padre Abram è un progetto scritto a più mani, insieme al direttore della colonia e a padre Martin Mai, frate vietnamita che da tempo opera a Van Mon.
Costruzione: Edificio a due piani, che ospiterà anche le stanze dei frati.
Funzioni: Accoglienza e assistenza dei bambini di Van Mon, attività ricreative e di rinforzo scolastico.
Centro sanitario generico, per facilitare l’accesso alle cure anche agli abitanti dei paesi vicini. Centro specializzato nella prevenzione e cura della lebbra. Scuola di infermieri per la diagnosi e cura a domicilio della lebbra. Ambulatorio ortopedico per la riabilitazione e la costruzione delle protesi.
Finalità: Reinserire i bambini di Van Mon nella comunità, curando anche le loro abilità scolastiche indispensabili per il futuro.
Facilitare i legami tra i familiari, interrotti dalla malattia.
Il servizio sanitario aperto a tutti, sarà occasione ulteriore per creare contatti tra villaggi e colonia. Abbattimento dello stigma. Migliore cura e trattamento di chi ha lesioni più gravi.
Costo stimato: euro 250 mila.