L’Europa siamo noi
In che cosa consiste la nostra identità nazionale e culturale? Si riassume in alcuni segni come la bandiera e l'inno nazionale o in alcuni rituali da stadio? Quando viaggiamo all'estero, intuiamo inequivocabilmente che i luoghi non sono interscambiabili perché sono legati a certi paesaggi tipici, si differenziano per le lingue o i dialetti parlati, per l'architettura, per il cibo, per la musica. Gli italiani si sono sempre distinti per il loro inconfondibile modo di vestire. Ora, la globalizzazione in atto sembra mettere in forse non solo le singole identità nazionali, ma addirittura un intero patrimonio su cui si è retta la nostra civiltà per secoli.
Gli «apocalittici» pensano che il pericolo provenga dagli Stati Uniti e che l'Europa si pieghi, per motivi prevalentemente economici, ad una cultura ritenuta inferiore rispetto alla nostra perché si fonda soprattutto su considerazioni materiali in cui non c'è più posto né per la cultura né per valori come la solidarietà e la giustizia sociale.
Per parte loro, i giovani sono consapevoli di vivere una crisi storica in cui il vecchio mondo occidentale sta subendo una metamorfosi probabilmente irreversibile? E ancora: se questa tendenza è veramente inarrestabile, come porsi nei suoi confronti? È possibile incidere sul corso degli avvenimenti, sulla storia, o si deve assumere un atteggiamento di fatalistica rassegnazione? O, per caso, quel rinnovamento, che coinvolge tutti i settori della nostra società , lungi dal costituire una minaccia, sarebbe invece auspicabile?
Su questi interrogativi è stato incentrato lo scambio fra il Liceo Ginnasio G. B. Brocchi di Bassano del Grappa (Vicenza) e il Lycée de Garà§ons di Esch-sur-Alzette, (Lussemburgo) che si è svolto in due tempi: dal 1° al 7 aprile in Italia e dal 2 al 7 maggio 2000 nel Granducato. Circa sessanta studenti hanno confrontato le loro opinioni su questa tematica e i risultati delle loro riflessioni possono essere consultati sul sito Internet del Brocchi, all'indirizzo: http://members.xoom.it/4ast/.
L'osservatore esterno è stato colpito dal fatto che alcuni fenomeni contemporanei, come l'omologazione nei modi di vestire (chi, infatti, non veste i jeans?) o la progressiva perdita delle abitudini alimentari a favore di quelle più economiche e rapide, non vengono considerati come problematici. Non sempre la percezione di un evento di tale portata viene «ideologizzato», posto criticamente in un contesto più generale.
Spesso gli studenti si sono accontentati di constatare che l'abbigliamento, per esempio, non distingue più un giovane lussemburghese dal suo coetaneo italiano: i capi di vestiari non sono più segni esteriori che connotano originalità ed estetica, ma sono l'espressione di un conformismo di gusto al quale milioni di giovani nel mondo si adeguano seguendo modelli importati spesso dagli Stati Uniti. Lo stesso sembra valere per le abitudini alimentari. I giovani italiani sono ben consci del fatto che la cucina in Italia è fra le più apprezzate in assoluto e tuttavia essi, come d'altronde i loro compagni lussemburghesi, non disdegnano affatto i fast-food. Se certe catene di ristorazione si sono affermate prepotentemente un po' ovunque, significa che l'individuo accetta di pagare lo scotto per le sue scelte di società anche se ciò comporta un deterioramento delle condizioni di vita. Ma il dato non è stato accolto con particolare apprensione da parte dei giovani, come non ha preoccupato oltremodo il fatto che le tradizioni stanno subendo una sensibile erosione.
Chi però temeva un cedimento della tenuta etica dei giovani deve ricredersi. Infatti, quando si è passati alla dimensione economica della globalizzazione, quando ci si è resi conto che essa comportava pericoli di sfruttamento ecologico e sociale si sono fatte sentire voci per richiamare l'attenzione sulla responsabilità di noi consumatori. Così hanno scritto nella loro relazione finale: «Molto dipende, comunque, da noi: abbiamo la possibilità di scegliere, qualora ci sia possibile capire la provenienza dei beni, quelli che offrono la garanzia che non siano stati prodotti grazie allo sfruttamento del lavoro minorile, per esempio. Non dobbiamo solo guardare al prezzo ma chiedere informazioni per una maggiore trasparenza circa le condizioni di produzione dei beni che acquistiamo. Una soluzione potrebbe essere quella di comprare prodotti che portano il marchio fair trade, sostenendo quelle associazioni che si battono per un mercato equo».
I dirigenti politici, attualmente al governo in Europa, non possono permettersi di rimanere latitanti di fronte alla nuova posta in gioco. È un imperativo morale non sottomettersi al diktat del «tutto economico». «Però la classe politica deve assumersi le proprie responsabilità e non cedere di fronte al ricatto del mercato che vuole imporre condizioni a loro esclusivo vantaggio».
Le soluzioni dunque ci sono: a livello di produzione, il Vecchio Continente deve puntare, come ha sostenuto nel suo intervento il produttore cinematografico lussemburghese, Paul Thiltges, sia sulla cooperazione fra i diversi Paesi europei sia sulla nostra originalità , senza voler competere con le possibilità finanziarie pressoché infinite dei colossi americani; a livello di fruizione, spetta a noi far valere le nostre esigenze e i nostri gusti, alla cui base, tuttavia, sta l'indispensabile fiducia nelle nostre possibilità di incidere sul corso della storia. Gli avvenimenti di Seattle hanno dimostrato che ciò è possibile. Come sempre, le istituzioni politiche e sindacali devono fare la loro parte e promuovere politiche accorte, ma anche le istituzioni tradizionali, come la famiglia e soprattutto la scuola, non possono permettersi di fallire nella loro missione educatrice.