LA DEMOCRAZIA DELLE CULTURE
Negli ultimi trent'anni sono approdati in Europa oltre 15 milioni di immigrati. Una cifra che corrisponde all'incirca al numero di persone che sbarcò negli Stati Uniti d'America tra il 1884 e il 1910. Dunque la nostra società si avvia a essere «colorata» e multietnica. Il professor Ulderico Bernardi, docente di sociologia all'università Ca' Foscari di Venezia, ha recentemente pubblicato il volume dal titolo La Babele possibile (Franco Angeli, 1996). Con lui ripercorriamo alcune tappe della storia dell'emigrazione e diamo uno sguardo al futuro.
Oggi assistiamo al riemergere, a volte drammatico, del bisogno di memoria e dell'esigenza di riscoprire le radici della propria cultura. L'unica alternativa al conflitto - secondo Bernardi - è la valorizzazione delle diversità : conoscere il proprio patrimonio culturale per rafforzare la propria identità . Conoscere le proprie radici è importante non solo per gli immigrati, ma è fondamentale anche per le nuove generazioni, che devono essere educate alla interculturalità .
Il mondo - soggiunge Bernardi - è fatto da un universo di culture specifiche, in un tempo che intreccia continuamente i destini delle generazioni, ciascuna delle quali riceve dalle altre un patrimonio di riferimento, di valori, di conoscenze che poi arricchirà .
Nel volume La Babele possibile lei sostiene che per costruire insieme una società multietnica, solo chi è certo della propria identità è disponibile allo scambio. Perché?
Bernardi. «È evidente che il primo passo per l'integrazione o per il radicamento è il senso di appartenenza alla propria cultura. Chi conosce la storia, l'ambiente, la comunità e la persona, cioè i quattro elementi che compongono la propria cultura, è in grado di conoscere anche il valore di tutte le altre. Simone Weil ci insegna che chi è sradicato non ha altro destino che sradicare o abbandonarsi 'all'inerzia dell'anima'. Molti giovani, purtroppo, soffrono oggi di questa 'inerzia dell'anima' per mancato senso di appartenenza e, quindi, esistono fenomeni come la droga e il suicidio giovanile».
Quali conseguenze comporta la chiusura?
«La chiusura comporta forme di non dialogo e di aggressione, per esempio quelle espresse oggi dal fondamentalismo islamico, una proposta chiusa di cultura, assolutamente lontana dall'ecumenismo religioso e culturale proposto dalle nostre realtà . Il fondamentalismo, però, non va confuso con l'Islam che ha dato un grande contributo al dialogo fra gli uomini».
Da dove nascono le forme di radicalismo?
«Sia il fondamentalismo estremista islamico, sia il fondamentalismo estremista dell'identità sono in parte generate anche dalla società che ha promosso il 'relativismo assoluto'. Questo ha generato nell'uomo, che invece ha bisogno di riferimenti precisi, una sorta di angoscia e, di conseguenza, l'esasperazione dell'appartenenza etnica che porta alla chiusura».
Tornando al tema dell'emigrazione: quando diventa maestra e perché spinge all'integrazione delle culture?
«I veneti, in cento e più anni di emigrazione, hanno realizzato il 'modello veneto' di sviluppo all'estero molto prima che si realizzasse in Italia. Questo modello fa riferimento fondamentalmente a tre aspetti: la famiglia, l'iniziativa e la responsabilità personale che sono molto forti nella nostra realtà per motivi storici. Le relazioni altruistiche e di solidarietà erano la condizione di sopravvivenza per tutta l'area della mezzadria che costituisce il cuore della cultura veneta.
«Chi conosce l'emigrazione può constatare come questa iniziativa e responsabilità personale siano state, di fatto, il valore di riferimento per il comportamento all'estero dei nostri emigrati, che, senza estraniarsi dalla società in cui sono stati accolti, hanno avuto modo di donare enormi ricchezze umane e anche economiche. Cito, per esempio, Geremia Lunardelli, originario di Mansué (Treviso), detto il 're del caffè' a San Paolo in Brasile già negli anni Trenta; Amedeo Obici, partito alla fine dell'Ottocento, e soprannominato negli Stati Uniti il 're delle noccioline americane'.
«Questa immigrazione è stata un'enorme ricchezza per le nazioni, quando si è verificata un'integrazione e non un'assimilazione. Queste persone sono rimaste sempre legatissime alla madrepatria, hanno fatto beneficenza in Italia, hanno mantenuto vivo il rapporto con la cultura italiana. Obici ha costituito una cattedra di italiano in Virginia, Lunardelli ha donato al museo delle belle arti di San Paolo eccellenti opere pittoriche della cultura italiana ed europea.
«Nei confronti degli immigrati di oggi, di coloro che arrivano in Italia dobbiamo sentire il peso della responsabilità , del contraccambio».
L'emigrazione di oggi è diversa da quella di ieri?
«È diversa e uguale. Non è un paradosso. È forse migliore perché gli immigrati che arrivano oggi in Italia sono più istruiti, sicuramente più emancipati. I nostri emigrati erano assolutamente tagliati fuori dalla comunicazione linguistica perché conoscevano spesso solo il dialetto. Erano sollecitati a cedere la loro identità in cambio di un salario: l'assimilazione è stato il destino di gran parte di questa emigrazione. Anche se, poi, gli studi sull'emigrazione, secondo la cosiddetta 'legge di Hansen', hanno dimostrato che la prima generazione, quella venuta dal paese d'origine aveva tralasciato il rapporto con la cultura originaria; la seconda generazione l'ha addirittura negato, allontanandosi per integrarsi; la terza riscopre la cultura d'origine.
«I nipoti riscoprono cioè la cultura dei nonni. Nell'integrazione comune si fa una società più ricca, perché come vuole anche il detto popolare: 'Il mondo è bello perché è vario'. Dunque nella società odierna, che mette a contatto un sempre maggior numero di culture, per effetto della mobilità umana, le diversità a confronto chiedono di essere riconosciute in una 'democrazia delle culture'».