«Profeta» della Parola di Dio
«La Chiesa riconosce troppo tardi la profezia». E un profeta, sotto certi aspetti, padre David Maria Turoldo lo fu e lo resta ancora oggi. Del frate friulano, figura emblematica di quella Chiesa del dopo-Concilio che anelava a un vero «aggiornamento» per portare a tutti gli uomini e le donne il fuoco della presenza di Dio, ricorre quest’anno (6 febbraio) il ventesimo anniversario della morte.
Non è un caso che proprio alcuni versi del Turoldo poeta siano stati scelti dal suo grande amico ed estimatore, il cardinale Gianfranco Ravasi, per presentare il Cortile dei gentili, spazio di incontro tra credenti e atei, che tanto sarebbe piaciuto a Turoldo: «Fratello ateo, nobilmente pensoso/, alla ricerca di un Dio/ che io non so darti,/ attraversiamo insieme il deserto./ Di deserto in deserto/ andiamo oltre la foresta delle fedi,/ liberi e nudi verso/ il Nudo Essere/ e là/ dove la parola muore/ abbia fine il nostro cammino». Una stima, quella tra Ravasi e Turoldo, coltivata negli anni, come ricorda il cardinale lombardo: «La mia amicizia con lui era nata in seguito alla pubblicazione, tra il 1982 e il 1984, di un mio sterminato commentario ai Salmi: tre volumi di oltre 3 mila pagine, che Turoldo aveva letto, studiato a approfondito. Per questo mi aveva cercato e aveva iniziato una consuetudine durata poi per anni. Nei pomeriggi di ogni domenica scendeva dalla sua abbazia a casa dei miei familiari a Osnago, dove mi recavo per l’impegno pastorale del fine settimana». E in queste «liturgie amicali» settimanali (l’amicizia fu uno dei capisaldi della vita di Turoldo) si cementò quell’intesa tra i due, il biblista e il poeta: «In quelle ore parlavamo a lungo – rammenta Ravasi –, egli mi leggeva i suoi testi e accoglieva con un’umiltà assoluta anche le mie riserve. Ci si inoltrava sui sentieri di altri libri biblici che io allora stavo commentando, come Qohelet e il Cantico, destinati a diventare materia di altre sue riflessioni o poesie».
Verso la contemporaneità
La statura di Turoldo venne ufficialmente rivalutata dal cardinale Carlo Maria Martini, già arcivescovo di Milano, il quale, consegnando nel 1991 il Premio Lazzati (conferito a chi si è distinto per l’impegno verso la società, la Chiesa e la formazione dei giovani, ndr) al religioso friulano, ne riconobbe appunto la «profezia», quella capacità di parlare «davanti a Dio». «È forse abusato e inesatto parlare di “profezia” per definire il genere letterario e spirituale turoldiano – puntualizza oggi il cardinale Ravasi –. Non lo è, però, nel senso genuino del termine. Il profeta non è un preveggente, né tanto meno un elaboratore di oroscopi per la storia; è invece un uomo di fiera contemporaneità». Tra il futuro cardinale e il prete-poeta l’amicizia si concretizzò anche nel libro I Salmi (San Paolo), con traduzione di Turoldo e commento di Ravasi. I testi fondamentali del frate restano O sensi miei… (Bur), Canti ultimi (Garzanti), Anche Dio è infelice (Piemme). In occasione del ventesimo anniversario dalla sua morte, Bompiani ha ripubblicato Il Vangelo di Giovanni. Nessuno ha mai visto Dio; mentre le Paoline ripropongono la biografia Turoldo. L’uomo, il frate, il poeta di Giancarlo Mattana.
Ma torniamo al tema della profezia. Ripercorrendo la vita di Turoldo, profetica fu l’adesione del frate al progetto di vita evangelica di don Zeno Saltini e alla sua Nomadelfia (comunità fondata negli anni ’30, nell’ottica di un ritorno alla «Chiesa delle origini», ndr). A Nomadelfia padre Turoldo era giunto dopo i primi passi da religioso: entrato appena tredicenne nel seminario dei Servi di Maria di Isola Vicentina, era stato ordinato prete nel 1940. Sei anni dopo si era laureato in filosofia all’Università Cattolica di Milano, sotto la guida di Gustavo Bontadini, allora «il» nome del pensiero filosofico cattolico in Italia. Ma prima della laurea il giovanissimo frate si era distinto nell’impegno per la Resistenza anti-nazista: aveva fondato una rivista clandestina a Milano, «L’uomo», e si era impegnato a fianco dei partigiani. Con il confratello Camillo De Piaz creò «La Corsia dei Servi», uno spazio culturale nel cuore di Milano, a due passi dal Duomo, con una libreria e un luogo di confronto. In quegli stessi anni il cardinale Ildefonso Schuster, alla guida della diocesi ambrosiana, lo volle come predicatore in Duomo. «Finita la guerra – ricorda Bepi De Marzi, compositore e musicista, grande amico di Turoldo – egli andò in cerca dei sopravvissuti dei campi di concentramento nazisti, organizzandone il rientro in patria».
Nel nome di una «utopia» cristiana
La decisione di passare a Nomadelfia, per sostenere l’«utopia» cristiana di don Saltini, costò a Turoldo l’esilio: nel 1954 il Sant’Uffizio ne chiese ai superiori l’allontanamento dall’Italia. Egli se ne andò in diverse case del suo ordine in Austria, Germania, Inghilterra, Stati Uniti e Canada. Un peregrinare faticoso e doloroso, che però gli diede anche l’occasione di farsi conoscere fuori dai patri confini. L’esilio, come è ricordato quel periodo, si concluse una decina di anni dopo, quando la conoscenza prima, e l’amicizia dopo, con Giuseppe La Pira, il «sindaco santo» di Firenze, riportarono in Italia Turoldo. In quegli anni, stabilitosi nell’abbazia di Fontanella, a Sotto il Monte (BG), paese natale di papa Giovanni XXIII, Turoldo iniziò a entrare sempre più nel dibattito pubblico, ecclesiale e laico, della sua Italia. Chiesa, liturgia, poesia, poveri, pace. Questi e molti altri i temi «caldi» su cui Turoldo si incamminò fino alla sua fine, sopraggiunta nel 1992 per un tumore al pancreas («il drago», come lo chiamava lui).
Decoro e semplicità
«Lo conoscevo dagli anni Sessanta, avevo studiato e amato le sue poesie già dopo l’esilio da Nomadelfia – ricorda oggi Bepi De Marzi –. L’episodio che ci ha fatti incontrare risale ai primi anni Settanta: eravamo a Monte Berico, per un incontro sulla liturgia. Il vescovo di Vicenza di quel tempo, monsignor Arnoldo Onisto, stava spiegando a catechisti, direttori dei cori e musicisti della diocesi come approntare la nuova liturgia uscita dalla riforma del Concilio. Io mi alzai e dissi: “Monsignore, forse sarebbe bene che anche i preti facessero le prediche più corte e meno torrenziali, e lasciassero spazio al silenzio, alla musica e al canto dell’assemblea”. Era presente anche padre Turoldo. Mi disse: “Tu fai per me”. Conosceva già i miei canti e, di lì a poco, mi fece chiamare per affiancare Ismaele Passoni nella composizione dei Salmi, Inni e Cantici che stavano per essere pubblicati dalla Casa Musicale Carrara di Bergamo». Una composizione che resta negli annali della musica liturgica per la sua coralità di partecipazione. «Cosa mi ha insegnato Turoldo? – continua De Marzi –. La semplicità e il decoro nella liturgia; la poesia della commozione; la libertà dal denaro: non l’ho mai visto con mille lire in tasca, dava via tutto; il non prostrarsi davanti al potere; lo stare sempre e solo con gli ultimi».
Proprio il mix di «verità e bellezza», secondo padre Ermes Ronchi – amico e discepolo del frate-poeta, oltre che biblista e collaboratore del «Messaggero di sant’Antonio» italiano, come lo fu, per anni, lo stesso Turoldo –, è stato il succo dell’esperienza turoldiana. «Egli è stato essenzialmente libero per essere fedele allo Spirito e infedele alla lettera. Ricercava la verità con un approfondimento continuo. Questo gli permetteva di essere ascoltato da credenti e non credenti, perché toglieva ogni ovvietà simbolica alla Parola. Era un uomo che stava sui problemi di frontiera, si schierava dove c’erano dolore, sofferenza e crisi». Oggi dove troveremmo Turoldo? «Di certo ad accogliere i barconi degli immigrati disperati», risponde convinto De Marzi. «Sarebbe là a denunciare la perdita dell’elemento umano nell’economia e a pungolare l’eurocentrismo della Chiesa», osserva Ronchi. «Nei nostri giorni così superficiali – aggiunge il cardinale Ravasi – è ancor più necessaria la voce di Turoldo che inquieta la pigra pace delle coscienze col fuoco di quell’Alfabeto che risuona dal roveto ardente». Chiudiamo da dove siamo partiti: Turoldo «profeta» del Cortile dei gentili, laddove la Chiesa vuole incontrare chi avvicina Dio come «Sconosciuto». Qualche tempo fa, monsignor Alfredo Battisti, vescovo emerito di Udine (recentemente scomparso, ndr), ha ricordato un aneddoto a lui trasmesso dallo stesso frate-poeta: «Durante un’udienza concessa all’Università Cattolica, Paolo VI disse a padre Turoldo: “Padre David, anche Lei è qui? Che gioia! Voglio dirle che la sua facoltà, quella di parlare di Cristo ai lontani, è la migliore di tutte!”. “Io gli risposi – mi raccontò Turoldo –: “Santo Padre, chi è lontano e chi è vicino?”. E Lui a me, prendendomi le mani e stringendomele forte: “È vero, siamo tutti lontani”».
I LIBRI
David Maria Turoldo,
LA PARABOLA DI GIOBBE. L’inevitabile mia storia, Servitium, pagine 300, € 16,00
David Maria Turoldo,
PENSIERI E PAROLE DI DAVID MARIA TUROLDO, Paoline, pagine 64, € 4,00
David Maria Turoldo,
IL VANGELO DI GIOVANNI. NESSUNO HA MAI VISTO DIO, Bompiani, pagine 208, € 9,90
Giancarlo Mattana,
TUROLDO. L’uomo, il frate, il poeta, Paoline, pagine 256, € 16,00