Italiani nel mondo, una rete di relazioni

«L'Italia può avere un ruolo sullo scenario internazionale se rimane in rapporto con i suoi concittadini all'estero e con coloro che guardano con interesse al nostro Paese».
18 Ottobre 2007 | di

Roma

Segafreddo. Durante la sua recente visita in Germania, il Ministro per l’integrazione del Nordreno Vestfalia, Armin Laschet, pur riconoscendo che i fatti di Duisburg hanno influito negativamente sull’immagine degli italiani nell’opinione pubblica tedesca, ha affermato che «gli italiani sono una ricchezza per il suo Land. Lavorano, creano posti di lavoro e sono i benvenuti». È un discorso di circostanza o, nonostante quello che è avvenuto a Duisburg, risponde a verità?

Danieli. Personalmente non ho dubbi sulle dichiarazioni rilasciate dal Ministro e dal sindaco di Duisburg in occasione degli incontri avuti con la stampa e con la comunità italiana. Corrispondono sia a quanto mi hanno personalmente espresso che alle testimonianze dei nostri rappresentanti consolari. Posso solo aggiungere che il Ministro Laschet è stato anche contestato, all’interno della sua formazione politica, per le sue convinzioni. Egli lavora realmente per l’integrazione dei nostri connazionali a Duisburg e nel suo Land con una prassi positiva. Purtroppo alcuni media hanno banalizzato, facendo di ogni erba un fascio, partendo dalla strage di Duisburg. Su questo, io ho espresso la mia netta contrarietà ricordando il danno morale provocato dalla copertina del settimanale Der Spiegel, una trentina d’anni fa, quando su un piatto di spaghetti era stata appoggiata una pistola. Gli italiani in Germania sono oltre 600 mila, lavorano in maniera onesta, e i fatti di Duisburg non possono denigrare l’impegno di centinaia di migliaia di persone. Lo stesso ministro, su questo, è stato molto categorico. Tra l’altro ha affermato: «qualche giorno fa abbiamo arrestato terroristi islamici che si preparavano a compiere attentati molto gravi, e abbiamo scoperto con dolore che vi erano due cittadini tedeschi addestrati in Pakistan». A dimostrazione di una delimitazione di quanto accaduto a Duisburg, dovuto a un’organizzazione criminale – come la ‘ndrangheta – con connotati di natura arcaico-tribale che deve essere combattuta dal governo italiano e dalla reazione della società civile allo scopo di un recupero sociale e morale dei criminali.

Dopo le elezioni dei deputati e dei senatori che rappresentano gli italiani all’estero, non le sembra che sia in gioco il ruolo del Cgie? Sono possibili delle convergenze tra i loro ruoli a favore di un maggiore sviluppo del «Sistema Italia» nel mondo?

Il Cgie è sempre stato considerato il parlamentino e la massima espressione della rappresentanza delle comunità italiane all’estero. Ma oggi, con la presenza di 18 parlamentari eletti dalle comunità italiane all’estero, del Cgie e dei Comites, il sistema complessivo della rappresentanza va ripensato. Un’opinione, questa, che già da qualche anno si è fatta strada all’interno delle nostre comunità all’estero, del Cgie e dei Comites. Bisogna tener conto che l’emigrazione di massa italiana è cessata da alcuni decenni, anche se il flusso migratorio permane in forma minore. All’estero siamo arrivati ormai alle terze e quarte generazioni integrate nei Paesi d’accoglienza, e dobbiamo pensare a un nuovo sistema di rappresentanza che tenga conto del fatto che oggi abbiamo una mobilità intellettuale e culturale, per le ragioni più varie, che porta fuori dall’Italia 20-30 mila persone ogni anno. L’obiettivo è quello di lavorare nelle Commissioni cercando un coordinamento tra le diverse proposte presentate dai parlamentari, in modo particolare da quelli eletti all’estero, affinché maturi un accordo tra tutti i soggetti interessati, armonico e soprattutto più adeguato ai tempi.

La salvaguardia dell’italianità a favore dei nostri oriundi e degli italofili residenti nel mondo è legata alla promozione della cultura e della lingua italiana. Quali sono le prospettive offerte dal progetto di riforma dalla legge 153/71 sulla diffusione della lingua e della cultura italiana?

La Legge 153 del 1971 si occupava dell’insegnamento della lingua italiana agli emigranti e ai loro figli. Era un provvedimento tipicamente adottato per le esigenze dei flussi migratori nazionali. Il problema della revisione di questa legge è stato affrontato dal Ministero degli Esteri qualche tempo fa con un seminario che ha coinvolto tutti i diversi operatori. Io stesso ho partecipato, a Stoccarda, per due volte, a convegni nel corso dei quali si è riflettuto sui fenomeni del disagio scolastico dei figli dei connazionali in alcuni Länder della Germania, destinati alla frequenza presso la scuola differenziale. Una lezione, non ancora recepita dal sistema scolastico tedesco, ma che dovrebbe essere conosciuta e resa nota, è quella offerta da don Lorenzo Milani con la «Scuola di Barbiana». In alcuni Länder tedeschi si decide già in quarta elementare il destino di un bambino: se è idoneo a frequentare il liceo oppure se dovrà accontentarsi di fare, nella vita, l’imbianchino o l’idraulico. Nei convegni, abbiamo messo insieme tutti gli elementi di analisi, e oggi siamo pronti a riformare la legge 153, tenendo conto di tanti elementi. Il tempo passa, e la necessità di dare una prospettiva all’insegnamento della lingua italiana non è più una domanda posta dai nostri oriundi, ma un’istanza espressa da tanta gente nel mondo. La riforma della legge 153 non deve riguardare solo l’insegnamento della lingua e della cultura italiana, ma deve essere una «messa a punto» del sistema delle istituzioni scolastiche italiane all’estero sia come sistema pubblico che privato.

Diversi milioni di discendenti di italiani sono socialmente e culturalmente integrati nei Paesi d’accoglienza. Altri, soprattutto in America Latina, desiderano riacquistare la cittadinanza italiana mettendo in crisi le strutture consolari. Anche se per la massa dei richiedenti si dovrà modificare la normativa vigente – che permette di fare richiesta a chi dimostra di avere un antenato italiano dal 1862 in poi – come può rispondere, oggi, l’Italia a queste attese?

Noi abbiamo un sistema di concessione della cittadinanza italiana piuttosto vecchio, in vigore dall’inizio del secolo passato. Oggi ci sono situazioni di richieste di riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis con una ricostruzione che ci riporta a italiani nati nel 1780, e che avevano 81 anni nel 1860. La richiesta è molto forte: in Brasile ci sono circa 500 mila domande; in Argentina altre 500 mila; ben 20 mila in Uruguay. Più di un milione di richieste solo in questi tre Paesi di fronte al totale mondiale di domande che non supera il milione e sessantamila. E questo grava sulle strutture consolari. La modifica della legge sulla cittadinanza, che mi auguro possa essere approvata entro la prossima primavera, prevede il riacquisto della cittadinanza italiana per le donne che l’avevano persa prima del 1948, con la possibilità di trasmettere questa cittadinanza riacquistata ai loro figli. Prevediamo inoltre la possibilità di riacquisto della nostra cittadinanza da parte di tanti italiani che l’avevano perduta, costretti dalle leggi nazionali vigenti all’epoca. Questo comporterà un ulteriore aumento delle richieste, e sarà uno dei prossimi compiti del nostro Parlamento riflettere e dare una risposta all’intero meccanismo della legge sulla cittadinanza, potenziando le strutture consolari. Rimane, però, evidente che lo Stato italiano non potrà riconoscere la cittadinanza a 70-80 milioni di cittadini d’origine italiana sparsi nei vari continenti: avere cioè un’Italia di 100-110 milioni di persone di cui metà residenti all’estero. Una riflessione più generale sul tema della cittadinanza va fatta. Nei prossimi mesi, a partire dalla Legge finanziaria, si dovrà dare una svolta anche al sistema della rete consolare, sia quella statale che quella onoraria, da anni in sofferenza per quanto riguarda le risorse e il personale. Mentre in Italia i ministeri nelle strutture centrali dello Stato, nel corso degli anni hanno delegato sempre più competenze alle Regioni, sulla rete consolare è venuta a gravare una mole di nuove competenze: dal voto politico alla raccolta di firme per il referendum, dalla domanda delle cittadinanze all’aumento dei permessi, dei visti d’ingresso e delle relazioni commerciali. Il tutto in una rete che è rimasta, strutturalmente, quella di alcuni decenni fa.

Rivolgendo l’attenzione agli anziani italiani residenti all’estero, se la concessione a pioggia dell’assegno di solidarietà appare irrealizzabile, quale prospettiva ritiene più realistica per aiutare tanti di loro che sono in vero stato di bisogno?

Di assegno di solidarietà si parla da molto tempo. Mi ricordo che quando, dal 1999 al 2001, ero sottosegretario agli Esteri mi occupavo anche allora di italiani nel mondo. Alle riunioni del Cgie, l’onorevole Tremaglia e i suoi amici mettevano sul tavolino dei volantini con la scritta: «Sottosegretario Danieli, riconosci l’assegno di solidarietà». Nei miei due anni al governo non fui in grado di riconoscere quest’assegno, che neanche il ministro Tremaglia nei suoi cinque anni di permanenza al governo è riuscito ad approvare. Come giustamente lei osserva, c’è il problema della copertura economica con il quale dobbiamo fare i conti. Abbiamo calcolato che l’assegno di solidarietà da distribuire agli anziani residenti all’estero richiederebbe ogni anno dagli 80 ai 100 milioni di euro: una cifra di notevole portata. Stiamo lavorando, e cercherò di farlo con questa Legge finanziaria, introducendo questo assegno a una platea forse un po’ più limitata, ma ciò darebbe un segno. Voglio ricordare che, dopo l’esperienza di sottosegretario agli Esteri, lasciai il capitolo dell’assistenza diretta a 23 milioni di euro. Oggi, ritornato come vice-ministro, l’ho trovato a 13 milioni di euro. Nella Legge finanziaria dello scorso anno, l’abbiamo portato a 20 milioni di euro, utilizzando quei soldi innanzitutto per aumentare il contributo economico che i consoli danno ai nostri connazionali indigenti: era fermo da anni, e l’abbiamo portato a 1.500 euro annui. Per qualche Paese latinoamericano questo contributo è già una piccola pensione. Ma abbiamo utilizzato questo aumento di bilancio anche per stipulare polizze sanitarie per garantire ai cittadini italiani indigenti una copertura sanitaria, assicurativa e medica degna di questo nome. In un sistema sanitario, di fatto privatizzato, o uno ha i soldi per pagarsi una buona assicurazione oppure rischia di finire in strutture sanitarie che non garantiscono assolutamente una soluzione ai suoi problemi fisici.

Il futuro dell’italianità nel mondo richiede il coinvolgimento delle nuove generazioni. Da parte del governo italiano c’è interesse a garantire un rapporto formativo e continuativo con tanti nostri oriundi integrati nei Paesi di residenza, ma desiderosi di rinsaldare le radici della propria identità?

L’interesse delle nuove generazioni integrate nei Paesi di residenza è molto forte. Ma è utile soffermarsi e fare dei confronti anche tra il fenomeno dell’emigrazione e l’immigrazione che vi è in Italia. Quando vado negli asili e nelle scuole elementari frequentate dai miei figli e vedo che ci sono tanti bambini dalla carnagione e dai tratti somatici diversi – e che parlano il dialetto romano o bolognese – penso che la loro frequenza alle nostre scuole e agli altri ambienti sociali, li rende cittadini del nostro Paese, fermo restando che dovrà essere garantito il rapporto con la terra d’origine dei loro genitori o dei loro nonni. Questo vale per i futuri cittadini italiani in Italia, ma vale anche per i cittadini d’origine italiana residenti in tanti Paesi nel mondo. C’è un forte interesse, da parte nostra, a mantenere queste relazioni. Noi non possiamo immaginare che le giovani generazioni italiane o di origine italiana, adottino lo stesso sistema di rappresentanza dei loro nonni. In qualche associazione esse si integrano e si trovano bene, ma c’è bisogno di trovare nuove forme di associazionismo specifico, riflettendo con loro sulle modalità e sugli strumenti che devono adottare per rimanere in rete con la realtà italiana. L’insieme dei problemi e delle istanze delle nuove generazioni hanno motivato l’organizzazione a Roma, nel 2008, della Conferenza dei giovani italiani nel mondo.

C’è la volontà politica di affrontare anche la sfida della comunicazione con l’«altra Italia», con sostegni adeguati alla stampa e agli altri strumenti di comunicazione multimediale?

Anche questo è un tema in attesa di modifica. La stampa italiana all’estero è essenzialmente strutturata come stampa identitaria, di minore quantità e con circolazione limitata, ma valida fonte di comunicazione e d’informazione. Pur nei suoi limiti, essa va sostenuta attraverso le contribuzioni annuali da parte del Ministero degli Esteri. C’è, poi, la stampa più strutturata con dimensioni più ampie che ha altre fonti di finanziamento attraverso convenzioni con la presidenza del Consiglio dei ministri e le provvidenze dell’editoria. Mi riferisco ai quotidiani per gli italiani nel mondo – pochi per la verità –, e al sistema un po’ più vasto dei mensili e dei settimanali. L’obiettivo dovrebbe essere quello di rafforzare queste strutture anche a partire dalla funzione societaria. Allargare cioè le spalle delle società che fanno queste iniziative, creare dei network di strumenti informativi per gli italiani all’estero in modo da poter lavorare su una più facile raccolta di mezzi e di risorse finanziarie con la pubblicità. C’è bisogno anche qui di aggiornare la legge perché fino ad oggi i nuovi strumenti di comunicazione multimediale sono esclusi dal sostegno economico da parte dello Stato. Questo vuoto non ha più senso dal momento in cui il New York Times annuncia che entro cinque anni avverrà l’eliminazione del formato cartaceo, e la redazione e la diffusione del quotidiano sarà solo on-line. Un’affermazione che stimola una forte azione di rinnovamento e di razionalizzazione del sistema.

Vede con speranza il futuro dell’«altra Italia»?

Sono fiducioso perché c’è una grande richiesta d’italicità, come dice Piero Bassetti. Una richiesta che proviene dagli italiani residenti all’estero, dai loro discendenti e da decine di milioni di cittadini nel mondo che guardano all’Italia con grande interesse. C’è, però, bisogno, periodicamente e anche tempestivamente, di un aggiornamento e di una revisione del complesso degli strumenti e dei progetti per rispondere in maniera più efficace a questa «voglia d’italianità»: una voglia bi-univoca per rinsaldare e promuovere nuovi rapporti.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017