India, la difficile via del dialogo
Dopo gli atti di violenza avvenuti in Turchia, dove fu assassinato don Andrea Santoro, continuano tristemente a ripetersi attacchi e persecuzioni contro la Chiesa cattolica. In Vietnam, nello scorso settembre, un centinaio di picchiatori hanno assalito i fedeli in preghiera in una parrocchia di Thai Ha con slogan che chiedevano la morte dell’arcivescovo della città. In Iraq, le comunità cristiane continuano a rimanere oggetto di pesanti discriminazioni e di costanti minacce. Ma questo clima di persecuzione si è aggravato ultimamente in India con una serie di oltre 60 omicidi e distruzioni di edifici delle comunità cristiane degli Stati di Orissa, Karnataka, Kerala, Chhattisgarh. Sono state già distrutte venti chiese, la cattedrale di Jabalpur, nello Stato del Madhya Pradesh e anche le scuole che accoglievano decine di migliaia di giovani indiani, costringendo più di 50 mila cristiani a fuggire nelle foreste per salvarsi.
Conoscendo che la costituzione indiana difende la libertà di religione e di conversione, tutto ciò appare come un incomprensibile accanimento di violenza in un Paese dove la presenza del cristianesimo, operante da due millenni, si è caratterizzata per l’annuncio del vangelo ma anche per l’impegno educativo a favore dei giovani. A Calcutta, Madre Teresa ha fondato una delle iniziative di carità e di assistenza verso gli ultimi e gli emarginati dal sistema delle caste, che dall’India si è irradiata in altri Paesi del mondo.
Il cardinale Oswald Gracias, arcivescovo di Bombay e presidente della Conferenza Episcopale Indiana, ha affermato: «La preghiera e il dialogo sono le armi per vincere l’ondata di anticristianesimo che sta attraversando l’India. Tutte le persone di buona volontà, anche induiste e musulmane, provano orrore, sono scioccate di fronte alle diaboliche azioni di coloro che non esitano a dare la caccia ai cristiani per ucciderli, a distruggere e incendiare case e chiese senza alcun rispetto per la dignità». E il cardinale Varkey Vithayathil, presidente del Sinodo dei vescovi siro-malabaresi ha aggiunto: «Come nazione non possiamo permetterci di farci risucchiare nel vortice degli istinti primitivi di conflitto e distruzione».
Ci troviamo di fronte a segni di violenza per l’impegno dei cristiani contro le discriminazioni causate dal sistema sociale indiano fondato sulle caste. L’appello del cardinale Varkey termina con un invito significativo rivolto a tutti i settori sociali della popolazione indiana per intraprendere la strada del dialogo: segno della volontà di riconciliazione e di pace.
«Non abbiate paura e non vi scoraggiate, di fronte alle situazioni in cui come pastori dovete difendere i vostri fedeli dalla persecuzione e da attacchi violenti», ha detto Benedetto XVI, lo scorso 20 settembre, ai vescovi presenti al seminario di aggiornamento promosso dalla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. Ma oltre all’appello del Papa, che in questi ultimi anni ha percorso le vie del mondo, messaggero di pace e di riconciliazione, anche i vescovi europei, il mondo politico, italiano e internazionale, hanno espresso il loro disappunto per gli atti di violenza contro le comunità cristiane dell’India. Un appello per la difesa dei cristiani e della qualità della democrazia indiana è stato inserito nella risoluzione preparata per il summit Ue-India dello scorso settembre; e Steven Hadley, presidente della Commissione Usa sulla libertà religiosa internazionale, ha inviato una lettera al presidente americano Bush chiedendogli un intervento immediato per bloccare le violenze contro le comunità religiose in India.
Sono appelli pieni di speranza che facciamo anche «nostri», consapevoli di quanto la Chiesa cattolica sta operando affinché le istituzioni internazionali siano garanti dei diritti fondamentali della persona e del dialogo interreligioso e interculturale tra popoli di razza e religione diverse.