Gli scalabriniani fanno scuola

Combattere contro rassegnazione e senso di inferiorità per rilanciare l'economia locale. Grazie alla solidarietà e alla competenza di chi è stato più fortunato.
17 Dicembre 2009 | di

Ho incontrato padre Giuseppe in occasione di un suo breve ritorno in Italia grazie all’interessamento di suo fratello Florio, conosciuto a un seminario formativo organizzato dall’Associazione Trevisani nel mondo presso la «Casa Soggiorno Alpino» a Laggio di Cadore. Florio, oltre a essere un attivo dirigente della «Trevisani» a Montebelluna, è riuscito in questi anni a coinvolgere diversi amici residenti in altri paesi, come Caerano San Marco in provincia di Treviso, Sospirolo nel bellunese, Arzignano in provincia di Vicenza. Da anni cura una rete di collegamenti per avere, da alcune ditte, materiale per costruzioni, trattori, mobili, cucine e altro. Una varietà di merce che viene spedita in container ad Haiti, un’isola caraibica di circa 8 milioni di abitanti, di cui 2 nella sola capitale, Port au Prince. Ma la cosa che più mi ha impressionato è il folto gruppo di volontari che Florio ha coinvolto, e che hanno trascorso mesi interi ad Haiti, nella missione del fratello Giuseppe, per offrire la loro attività come artigiani, muratori e tecnici – ancora in attività o in pensione – per realizzare quanto era richiesto dai padri Scalabriniani della Missione.
Segafreddo. Mi puoi parlare della tua vita fino all’arrivo ad Haiti?
Padre Giuseppe
. Sono nato a Montebelluna, e dopo essere stato attratto dall’ideale missionario del beato Scalabrini, ho frequentato i primi cicli di studio del Seminario minore di Bassano del Grappa. Successivamente mi sono trasferito a Roma per il corso di Filosofia all’Università Gregoriana; e a Friburgo, in Svizzera, per quello di Teologia. Ordinato sacerdote, per dieci anni sono stato missionario nelle nostre comunità scalabriniane di Montréal e di Toronto, che seguivano pastoralmente soprattutto le famiglie italiane. Successivamente ho svolto per cinque anni l’incarico formativo di maestro dei novizi nella nostra casa di Chicago, negli Stati Uniti, e poi per altri cinque anni in Messico. L’ultima esperienza missionaria, prima di giungere, nel 1995, a Port au Prince, ad Haiti, si è svolta nella nostra Missione in Colombia.
Com’è avvenuto il tuo inserimento in questa ex colonia francese, e quali sono state le cose realizzate?
Sono arrivato ad Haiti con il compito preciso di costruire un Seminario per la nostra Congregazione. I vescovi haitiani avevano chiesto di formare dei giovani missionari affinché potessero assistere i numerosi haitiani che vivono negli Stati Uniti, in Canada, nella Repubblica Dominicana e in Europa. Ma quando sono arrivato ad Haiti mi sono reso subito conto dell’estrema povertà della popolazione, e mi è sembrato ingiusto costruire solo un Seminario, limitandoci in questa iniziativa. Ho pensato anche che non sarebbe stata una buona formazione, per i futuri sacerdoti, isolarli dalla dura realtà del loro Paese senza sviluppare in loro la sensibilità per i problemi del loro popolo. Così abbiamo costruito un Seminario per gli studi filosofici, il noviziato, un Seminario propedeutico, che poi è stato intitolato a san Pio X, cercando contemporaneamente di rispondere alle necessità più urgenti della popolazione locale, che abita in un quartiere molto povero alla periferia di Port au Prince. In questo quartiere abbiamo cominciato, con l’aiuto di alcuni medici, a costruire un Dispensario per accogliere e dare alla gente più povera le prime cure, indirizzando i casi più gravi a strutture meglio attrezzate. Abbiamo inoltre costruito una piccola scuola che si è via via sviluppata. Oggi è divenuta una nuova scuola, ampia e accogliente, capace di ospitare 420 bambini, che altrimenti non avrebbero potuto ricevere nessuna istruzione, anche elementare. Ad Haiti, infatti, le scuole sono a pagamento e da parte dello Stato non c’è nessun intervento in questo settore. Poi, rispondendo a una richiesta della Conferenza episcopale di Haiti, abbiamo realizzato la sede della Conferenza episcopale, permettendo ai vescovi di riunirsi per i loro incontri e per altre manifestazioni religiose, oltre a dare ospitalità persino a incontri governativi. Abbiamo realizzato altre due strutture: il Cafog ovvero il Centro di formazione dei giovani, dove vengono accolti gruppi di giovani e dove si cerca di dare loro una formazione cristiana, umana e socio-politica; e, per ultimo, abbiamo costruito la sede della Pastorale giovanile della Diocesi di Port au Prince.
Come hai potuto realizzare tutto questo in un Paese povero come Haiti?
Qui bisogna riconoscere il grande aiuto che ci viene dall’Italia, in particolare dalle parrocchie del Veneto, soprattutto dalla collaborazione di tanti volontari. Sono persone sensibili ai problemi missionari che lasciano per alcuni mesi casa e famiglia per venire a realizzare queste strutture ad Haiti. Tutto quello che ti ho descritto è stato possibile grazie a questo aiuto volontario e gratuito di tanti amici, molti dei quali sono miei compaesani. Ma quello che è più interessante è che si sono messi a lavorare con gli abitanti del luogo, e questa è stata un’esperienza unica e bella perché, oltre ad aver insegnato loro dei lavori che prima non sapevano fare, ha favorito l’ integrazione tra i volontari italiani e i lavoratori haitiani.
Per tutti questi risultati devo ringraziare in particolare la mia famiglia e tutte le persone che hanno risposto alle mie richieste. Infatti quando sono arrivato ad Haiti, ho capito subito che da solo non avrei realizzato niente. Ho chiesto aiuto a persone competenti e con esperienza; e queste hanno risposto con molta disponibilità e generosità. Già da 15 anni si è costituito un gruppo informale che continua a mandarmi container con materiali d’ogni genere, e continua a sostenermi in tutte le iniziative che propongo.
Quanti sono gli italiani che hanno risposto ai tuoi appelli e sono venuti ad Haiti come volontari?
Sono più di una trentina le persone che vengono fedelmente ogni anno o saltuariamente. Ma se devo tener presenti anche i volontari che vengono per brevi esperienze di lavoro, il numero è certamente maggiore. Generalmente stanno tre mesi, qualcuno anche più a lungo. Ammiro sempre il loro spirito di sacrificio perché lavorano dalla mattina alla sera con competenza e responsabilità.
Qual è lo spirito che anima la tua attività?
Il grande problema di questo e di altri Paesi poveri del Centro America non è solo la mancanza di risorse economiche ma è lo spirito di rassegnazione e il complesso di inferiorità che bloccano la loro attività. Ho constatato che per cominciare a cambiare questa situazione, bisogna prima di tutto cambiare la mentalità della popolazione, e questo non avviene solo con le cose, il denaro, ma attraverso la testimonianza: prima di tutto con l’impegno di noi missionari, e poi con la presenza e l’attività dei volontari. Dobbiamo metterci al livello di queste popolazioni, lavorare e vivere con loro, vivere la loro semplicità per dimostrare che la loro povertà non è una maledizione. Ogni persona, anche se povera, ha una dignità, e vale molto.
Negli scritti del beato Scalabrini c’è una visione profetica che oltrepassa ogni frontiera; un’utopia d’unità che ritrovo anche nella partecipazione dei volontari italiani all’opera della Missione di Haiti.
Penso che questo è veramente lo spirito che ci anima. Oggi dobbiamo rispondere a una grande sfida nel mondo. Ci sono i grandi problemi dell’emigrazione, ma è soprattutto nei contesti delle divisioni e delle lotte tra il mondo ricco e quello povero che dobbiamo dimostrare come, al di là delle differenze economiche, culturali e linguistiche, la missione della Chiesa è quella di formare «unità», offrendo testimonianze dell’appartenenza a una famiglia umana, segno del regno di Dio.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017