Per una cultura del dialogo
La religione, come apertura a Dio, produce un'inversione di scelte di vita: richiama al dialogo, promuove la conoscenza e l'accettazione dell'approccio interculturale, e matura condizioni di pace.
14 Aprile 2010
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Quale può essere l’apporto della religione a una società, come quella odierna, coinvolta da sfide che intaccano i diritti umani sul piano economico, civile e politico? Quale forza morale può infondere per garantire i valori della legge naturale, impressa da Dio, sulla quale si fonda lo sviluppo integrale della persona? Benedetto XVI nell’Enciclica Caritas in veritate scrive che «il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, la persona, nella sua integrità». Egli è, infatti, autore, centro e fine di tutta la vita economico-sociale. La sua dimensione religiosa è unita a quella politica, rendendolo così testimone di un umanesimo che Jacques Maritain definisce «integrale».
La dottrina sociale della chiesa cattolica non si rivolge solo ai cristiani, ma è un patrimonio di riflessioni e di orientamenti rivolti anche a popoli di cultura e religione diversa. In essa ha uno specifico rilievo il diritto alla libertà religiosa, oggi emarginato dalla cultura laicista, uno dei punti cardine della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Onu nel 1948. La fede e la libertà religiosa non devono mai essere motivo di divisioni e di lotte tra popoli di etnie diverse ma, al contrario, devono promuovere i loro valori etici e sociali a livello nazionale e internazionale. La persona viene tutelata, qualunque sia il suo credo, la sua cultura, la sua appartenenza. Potremmo citare tanti apporti dati da rappresentanti del cristianesimo e di altre religioni per la soluzione di problematiche riguardanti la famiglia, il mondo del lavoro, l’assistenza sanitaria, il mondo politico e civile. Come hanno avuto rilevanza gli interventi degli Osservatori permanenti della Santa Sede presso l’Onu e l’Ufficio delle Nazioni Unite di Ginevra sull’attuale crisi economico-finanziaria e per salvaguardare i diritti della famiglia, così sono stati segni positivi l’opposizione del mondo buddista alle spinte tiranniche manifestatesi, in questi ultimi mesi, in alcuni Paesi dell’Asia. Interventi rivolti a garantire la giustizia e la pace, a porre in giusto rapporto l’economia con la politica, a rispondere a povertà endemiche, a lenire le tensioni tra la logica del bene e la ricerca del profitto. Tutto ciò testimonia che le religioni continuano a porre, al centro della loro sollecitudine, i diritti della persona e il bene comune universale.
La fede religiosa rapporta l’uomo con il suo Creatore, ma è anche un impegno, aperto a tutto ciò che è valore, cultura e attesa dell’umanità. Un apporto, purtroppo, non riconosciuto. Benedetto XVI, nel discorso dell’11 gennaio scorso al Corpo diplomatico della Santa Sede, ha sottolineato come «purtroppo, in alcuni Paesi, soprattutto occidentali, si diffonda, in ambienti politici e culturali, come pure tra i mezzi di comunicazione, un sentimento di scarsa considerazione e, talvolta, di ostilità, per non dire di disprezzo, verso la religione, in particolare quella cristiana. È chiaro che se il relativismo è concepito come un elemento costitutivo essenziale della democrazia, si rischia di concepire la laicità unicamente in termini di esclusione o, meglio, di rifiuto dell’importanza sociale del fatto religioso».
Come possiamo allora accettare gli atti di violenza e di odio che continuamente emergono tra popoli di religioni diverse, in Pakistan o in Sudan? Le motivazioni sono sempre politiche e motivate da carenze sociali. Ma sono sempre in contraddizione con una storia aperta al futuro, e con una pace di cui ci sentiamo garanti. Sono la negazione del dialogo che non è solo scambio d’idee, ma anche di doni che ci aprono alla diversità, all’alterità, a contatti e relazioni capaci di costruire, anche con segni profetici, un mondo più vivibile e umano.
La dottrina sociale della chiesa cattolica non si rivolge solo ai cristiani, ma è un patrimonio di riflessioni e di orientamenti rivolti anche a popoli di cultura e religione diversa. In essa ha uno specifico rilievo il diritto alla libertà religiosa, oggi emarginato dalla cultura laicista, uno dei punti cardine della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Onu nel 1948. La fede e la libertà religiosa non devono mai essere motivo di divisioni e di lotte tra popoli di etnie diverse ma, al contrario, devono promuovere i loro valori etici e sociali a livello nazionale e internazionale. La persona viene tutelata, qualunque sia il suo credo, la sua cultura, la sua appartenenza. Potremmo citare tanti apporti dati da rappresentanti del cristianesimo e di altre religioni per la soluzione di problematiche riguardanti la famiglia, il mondo del lavoro, l’assistenza sanitaria, il mondo politico e civile. Come hanno avuto rilevanza gli interventi degli Osservatori permanenti della Santa Sede presso l’Onu e l’Ufficio delle Nazioni Unite di Ginevra sull’attuale crisi economico-finanziaria e per salvaguardare i diritti della famiglia, così sono stati segni positivi l’opposizione del mondo buddista alle spinte tiranniche manifestatesi, in questi ultimi mesi, in alcuni Paesi dell’Asia. Interventi rivolti a garantire la giustizia e la pace, a porre in giusto rapporto l’economia con la politica, a rispondere a povertà endemiche, a lenire le tensioni tra la logica del bene e la ricerca del profitto. Tutto ciò testimonia che le religioni continuano a porre, al centro della loro sollecitudine, i diritti della persona e il bene comune universale.
La fede religiosa rapporta l’uomo con il suo Creatore, ma è anche un impegno, aperto a tutto ciò che è valore, cultura e attesa dell’umanità. Un apporto, purtroppo, non riconosciuto. Benedetto XVI, nel discorso dell’11 gennaio scorso al Corpo diplomatico della Santa Sede, ha sottolineato come «purtroppo, in alcuni Paesi, soprattutto occidentali, si diffonda, in ambienti politici e culturali, come pure tra i mezzi di comunicazione, un sentimento di scarsa considerazione e, talvolta, di ostilità, per non dire di disprezzo, verso la religione, in particolare quella cristiana. È chiaro che se il relativismo è concepito come un elemento costitutivo essenziale della democrazia, si rischia di concepire la laicità unicamente in termini di esclusione o, meglio, di rifiuto dell’importanza sociale del fatto religioso».
Come possiamo allora accettare gli atti di violenza e di odio che continuamente emergono tra popoli di religioni diverse, in Pakistan o in Sudan? Le motivazioni sono sempre politiche e motivate da carenze sociali. Ma sono sempre in contraddizione con una storia aperta al futuro, e con una pace di cui ci sentiamo garanti. Sono la negazione del dialogo che non è solo scambio d’idee, ma anche di doni che ci aprono alla diversità, all’alterità, a contatti e relazioni capaci di costruire, anche con segni profetici, un mondo più vivibile e umano.
Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017