Italians? «Noi...not spik Inglisc»

«In Italia i delusi dall'inglese sono quanti i delusi dall'amore» afferma il giornalista Beppe Severgnini. Breve viaggio alla scoperta di un Paese che non va all'estero perché non ama né volare né tanto meno cimentarsi con le lingue.
22 Giugno 2011 | di

Valigia in mano, imman­cabili occhiali scuri, golfino annodato in vita e macchina fotografica appesa al collo. Sono almeno trenta milioni gli italiani che, durante l’estate 2011, si allontaneranno da casa per un periodo di vacanza. Secondo un’indagine di Trademark Italia, sulla base del sondaggio Ipsos Observer svolto a marzo scorso, gli italiani preferiranno, però, rimanere in Italia piuttosto che andare all’estero. Anche se l’interesse per viaggi oltreconfine è cresciuto (il desiderio di vacanze all’estero è di 2,5 volte superiore al 2001), di fatto, a trascorrere le vacanze fuori Italia nei prossimi mesi sarà non più del 19 per cento, pari a 4,8 milioni di italiani, anziché il 16 per cento del 2001 e il 17,8 per cento del 2010. I motivi? Siamo pigri, conservatori, ma, soprattutto, «non parliamo le lingue straniere». Infatti, la prima ragione per cui non andiamo in vacanza all’estero, è proprio questa: non conosciamo le lingue, a cominciare dall’inglese. L’eccezione alla regola è rappresentata da giovani e giovanissimi che prediligono, invece, proprio la vacanza all’estero, conoscono bene una lingua straniera, inglese su tutte, e sono già stati in altri Pae­si per vacanze-studio.
Ma davvero si riesce a imparare una lingua in poco tempo? «I cosiddetti crash courses, ossia corsi intensivi utilizzati in genere per “emergenze” linguistiche, proposti in questa stagione – spiega il professor Paolo E. Balboni, docente di Didattica delle lingue straniere moderne e contemporanee all’Università Ca’ Foscari di Venezia – funzionano solo se poi si va nel Paese di cui si è studiata la lingua, altrimenti non rimane nulla. Insegnare una lingua, così come imparare, ha senso solo se si insegnano, e di conseguenza si imparano, una cultura e una civiltà».
Le parole non sono gesti
Mescolare tra loro le lingue straniere, nel nostro caso inglese e italiano, nelle parole e prima ancora nei gesti, può risultare, talvolta, pericoloso. Se in Inghilterra chiediamo di poter giocare a flipper ci rispondono che questo gioco non esiste. La parola flipper significa unicamente pinna: ecco il perché del nome dato al delfino protagonista di tanti film. Fin qui nulla di grave. Gli errori possono, però, diventare imperdonabili quando di mezzo ci sono usi, costumi e culture diverse. «Aldilà di conoscenze relative a banalità quotidiane – prosegue il professor Balboni –, se chiediamo cose sbagliate si rischia davvero grosso. Dentro una lingua è racchiusa una quantità straordinaria di rapporti sociali, di valori, a cominciare dal concetto di rispetto, dalla stessa decisione di dare del tu o del lei. Sono tutti aspetti di notevole complessità. Gli errori socio-culturali sono ben più gravi di un congiuntivo mancato. Allo straniero si perdona l’errore linguistico, ma non quello culturale. Noi stessi non siamo consapevoli di quali elementi culturali mettiamo dentro la nostra lingua».
Sbagliare, in molti casi, può significare addirittura offendere. «È più facile di quanto sembri, in particolare con i gesti – prosegue Balboni –. Quando parliamo una lingua straniera e non sappiamo qualche termine, noi italiani di solito ci aiutiamo con le mani. Ma il gesticolare non è sempre uguale. Qualche esempio? Il gesto per chiedere “che diavolo vuoi?” in Italia è molto volgare, in Turchia invece vuol dire “eccellente, questo pasto!”, mentre in arabo significa “basta”. Se a un arabo facciamo il nostro gesto di “aspetta” con il braccio che va avanti e indietro, è probabile che ci risponda con un pugno in testa. Una lingua contiene gerarchie e valori che vanno rispettati. Se non li si “annusa” o non si diventa sensibili a percepirli si può rischiare molto».
Il potere delle lingue
Le lingue attualmente parlate nel mondo sono tra le 5 mila e le 10 mila, senza contare dialetti e varianti. Di queste, le 12 principali sono parlate da quasi i tre quinti dell’umanità, mentre le prime 30 da oltre i tre quarti. Il mezzo miliardo di cittadini dell’Unione europea, ripartiti in 27 Stati membri, parlano 23 lingue ufficiali, oltre a tutti gli idiomi minoritari e regionali. Eppure, secondo l’ultima indagine Eurobarometro solo la metà dei cittadini dell’Ue si dichiara capace di conversare in una lingua diversa dalla propria. E sempre secondo la stessa statistica, nel nostro Paese regna un atteggiamento contraddittorio: anche se il 97,7 per cento della popolazione e il 96 per cento delle imprese reputa molto utile la conoscenza delle lingue straniere, il 78,1 per cento non ha alcuna intenzione di apprenderne una nuova e il 95,4 delle imprese non intende organizzare corsi di formazione. «Il nostro Paese è agli ultimi posti in Europa per il livello di competenza tra gli adulti – spiega Silvia Gerboni di EF Education First, organizzazione internazionale di formazione linguistica e accademica –. Secondo i risultati di uno studio che abbiamo pubblicato il mese scorso a livello mondiale, Italia e Spagna sono le uniche nazioni europee con un basso livello di conoscenza dell’inglese». L’EF English proficiency index (Epi) è il primo studio comparato sulla conoscenza dell’inglese condotto a livello internazionale. Si basa su una serie di test linguistici on line che hanno coinvolto, tra il 2007 e il 2009, oltre 2 milioni di persone adulte di tre continenti.
«In parte è colpa del nostro sistema scolastico – prosegue Balboni –. Con un’ora d’inglese la settimana, i genitori sono convinti che i bambini studino inglese. Uno studio realizzato qualche anno fa dimostra che il risultato migliore si ottiene con due ore e mezza settimanali, svolte non di seguito, ma 20-30 minuti al giorno. A parità di quantità oraria, chi le faceva concentrate imparava, infatti, di meno. In tanti Paesi stranieri i bambini imparano una lingua, ad esempio, grazie a una baby-sitter pagata da più famiglie, la quale, giocando con loro, insegna anche parole diverse dalle loro».Il metodo più efficace per i bambini è quello dell’«esposizione» e non della spiegazione: i più piccoli non hanno ancora la struttura mentale richiesta per capire soggetto, predicato e complemento, ma hanno una capacità imitativa straordinaria.«E così il bambino bilingue, di cui gli italiani hanno tanta paura, sviluppa invece, proprio grazie all’apprendimento di più lingue, una maggiore capacità di soluzione dei problemi. Sin da piccolo è costretto, in qualche modo, ad “arrangiarsi”. In fondo, ha già imparato, molto prima di noi, “come funziona la testa degli altri”».

Beppe Severgnini


«Imparare una lingua straniera? Mission: Possible». 

Imparare una lingua straniera non è una missione impossibile. «So bene che in Italia i “delusi dall’inglese” sono almeno quanti i “delusi dall’amore” – spiega Beppe Severgnini, giornalista del “Corriere della Sera”, per anni inviato all’estero –. Se la strada per parlar bene inglese è difficile, quella per farsi capire è uno scherzo. Il principiante non esiste, nessuno parte da zero. Milioni di italiani conoscono già, senza rendersene conto, un po’ di inglese prima di cominciare a studiarlo».
Per imparare una lingua, soprattutto per i più giovani, una tecnica infallibile rimane quella delle vacanze-studio. «Come la maggioranza degli italiani – prosegue Severgnini – ho studiato l’inglese (si fa per dire) alle medie, e come molti, durante le superiori, sono stato spedito dai genitori sulla costa della Manica per i classici “corsi estivi”. Ho sempre ritenuto l’idea eccellente. Per questo la consiglio caldamente. Internet e televisione sono i veri insegnanti d’inglese del XXI secolo. Abituatevi ad ascoltare film/programmi in lingua originale (dai Simpsons a Lost)».

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017