I gioielli di casa Vanderbilt
Che cosa hanno in comune con il Friuli l’aeroporto JF Kennedy, la Grand Central Station, la Statua della Libertà, l’IBM Head Quarter, il Federal Office Building e il nuovo Queens Hospital Center di New York? Sono edifici pubblici – ma non mancarono anche sontuose dimore private, come quella del magnate Vanderbilt – in cui i friulani, a partire dalla fine dell’Ottocento, realizzarono con la loro arte i pavimenti più belli d’America, portando ovunque lo splendore dei famosi “terrazzi” veneziani. Maestri del “battuto” fin dal 1500, gli artigiani della pedemontana del Friuli occidentale, fecero esperienza nella Repubblica della Serenissima e nei palazzi del Veneto, e più tardi emigrarono in Austria, in Francia, in Germania. Quando gli Stati Uniti scoprirono questa pavimentazione di pregio, i terrazzieri furono molto richiesti, e si determinò un flusso migratorio di manodopera specializzata che continuò per più di un secolo.
Lo scorso settembre, a Palazzo Polcenigo di Cavasso Nuovo, comune pordenonese al centro della zona da cui partivano i terrazzieri, una giornata di studi ha analizzato questo fenomeno valorizzandone la portata.
Francesco Micelli, docente di geografia all’Università di Trieste, ha posto l’accento sulla necessità di colmare alcuni vuoti nelle ricerche sulla mobilità dei friulani diretti negli Stati Uniti e in Canada. «I dispensari antitubercolari offrirebbero straordinarie occasioni di studio per verificare lo stato di salute di tutti i migranti, monitorando i controlli medici nei paesi di partenza, nei luoghi di lavoro e dove si registrò l’ultima residenza, analizzando sia i flussi stagionali, sia le condizioni al rientro dopo anni di lavoro all’estero» spiega Micelli.
Diversamente da quanto si poteva ipotizzare, ad esempio, una recente pubblicazione sulla vita nella Carnia del Settecento, che si è avvalsa dei documenti delle anagrafi parrocchiali e dello studio di migliaia di atti notarili, ha messo in evidenza come la comunità alpina non vivesse di pastorizia e agricoltura, ma fosse caratterizzata da un’intensa mobilità verso il bacino del Danubio, verso l’Istria e la Venezia Giulia, determinata dai commerci e dall’artigianato, in particolare nel settore manifatturiero. È emersa quindi una mentalità che, per l’epoca, si può definire cosmopolita e una scelta volontaria di rientrare nei luoghi d’origine.
Anche Emilio Franzina, ordinario di storia contemporanea all’Università di Verona, ha evidenziato un problema metodologico che ha posto dei limiti al lavoro degli storici. «L’analisi della storia dell’emigrazione operaia degli italiani in America è stata condizionata dal fatto che in parte coincideva con quella del movimento socialista e, successivamente, con quella degli anarchici e dei comunisti – conferma Franzina –. In questi casi le fonti privilegiate, usualmente, sono gli archivi di polizia e ciò ha ingenerato delle distorsioni poiché non riguardano la maggioranza dei lavoratori».
Fonti ricche e variegate, sia in terra italiana sia in America, consentono comunque l’integrazione e il confronto di molti dati. In Friuli, vista la provenienza geografica ben definita di terrazzieri e mosaicisti, si consultano anagrafi comunali e parrocchiali, mentre negli Usa si fa riferimento alla consultazione dell’archivio on line all’Ellis Island Immigration Museum, al registro degli sbarchi nel porto di New York, al libro dei soci della “Famee Furlane” e ai registri delle associazioni di categoria dei lavoratori del settore. «Si tratta di documenti cartacei compilati a mano, talvolta deteriorati, incompleti e soggetti ad errori di trascrizione anche perché italiano e inglese si frammischiano. Far combaciare le informazioni ricavate dallo spoglio del materiale è un’operazione di fondamentale importanza», sottolinea la ricercatrice Tiziana Tomat. Non va dimenticata l’importanza bibliografica di due libri di don Luigi Ridolfi – Lacrime cristiane. Quadri e cuori e I friulani nell’America del Nord – cappellano della motonave Vulcania, che scrisse con precisione dei compaesani incontrati durante i numerosi viaggi negli Usa, tra gli anni Venti e gli anni Trenta del secolo scorso.
La maggioranza di coloro che giungevano negli Usa dalla fine dell’Ottocento agli anni Trenta erano semplici braccianti, manodopera non qualificata destinata alla costruzione di ferrovie, strade, metropolitane e nel settore edile in generale. «Solo il 10 per cento erano artigiani, ma si tratta di ben 300 mila persone» precisa Rudolph Vecoli, nato a Wallingford da una famiglia originaria di Camaiore, professore di storia alla University of Minnesota e direttore dell’Immigration History Research Center. Tra questi vi erano sia macellai, panettieri, sarti, barbieri, calzolai che fornivano prodotti e servizi ai loro connazionali nelle “piccole Italie”, sia operai qualificati, cioè scalpellini, fabbri, figurinai, mosaicisti e terrazzieri. I figurinai provenivano prevalentemente dalla Toscana, ebbero fortuna producendo statuine in gesso che vendevano nelle strade delle città statunitensi. Gli inizi furono umili, ma alcuni divennero imprenditori chiamati a decorare chiese, palazzi pubblici e abitazioni private.
È l’emigrazione di terrazzieri e mosaicisti a rivestire carattere di assoluta eccezionalità. Originari di Sequals e di tutta la zona della pedemontana del Friuli occidentale, artefici del pavimento delle Procuratie e della Chiesa marciana a Venezia e noti per i loro lavori in Germania e a Parigi, gli artisti del “battuto” furono richiesti nel 1880 dal milionario Vanderbild che stava ultimando la costruzione della sua dimora sulla 5th Avenue. Vanderbilt volle mosaici sulle pareti e sui soffitti e l’impresa americana a cui aveva commissionato la costruzione si trovò in difficoltà. Attraverso il consolato italiano un’azienda di Sequals inviò a New York i suoi migliori mosaicisti, i cui lavori furono molto apprezzati. «Mentre per buona parte dei friulani l’inizio della primavera e l’arrivo dell’inverno segnavano alternativamente la partenza verso l’estero e il ritorno in patria, i terrazzieri trascorrevano periodi molto lunghi lontani dalla loro patria. Infatti svolgevano lavori all’interno e la loro permanenza non doveva assoggettarsi per forza alle cadenze stagionali» chiarisce Javier Grossutti, docente di all’Università di Udine. Il terrazzo si diffuse prima sulla costa atlantica, poi all’interno del paese. Fu fondata la Mosaic and Terrazzo Workers Association of New York and Vicinity, la più antica associazione sindacale di categoria che attraverso dure lotte ottenne condizioni di lavoro più favorevoli, una riduzione dell’orario settimanale vigilando sul miglioramento delle condizioni economiche e sulle garanzie previdenziali. «I terrazzieri friulani costituirono una vera “nicchia occupazionale” e detennero il monopolio del settore» conclude Grossutti.
Questi artigiani del mosaico raggiunsero il Canada, la Florida, ma anche i Caraibi e Cuba, dove realizzarono il pavimento del Teatro Garcia Lorca e le ramblas dell’Avana. Mantennero sempre il legame con la terra d’origine, quel distretto dello spilimberghese dove nacque, finanziata anche dalle imprese fondate dai conterranei negli Stati Uniti, la “Scuola di Mosaico”, garanzia di formazione per i giovani preparati ad affrontare le esigenze specifiche dei mercati lontani già conquistati o da conquistare.