L'emozione di essere italiani
Rio de Janeiro
L’anno è il 1999. La statunitense HBO e la brasiliana Rede Globo, fra i maggiori produttori televisivi al mondo, lanciano quasi in contemporanea nei rispettivi Paesi due fiction che segneranno la storia della televisione: la serie Sopranos e la telenovela Terra Nostra. Ascolti da record, vendite in tutti i continenti, un’infinità di riconoscimenti (5 Golden Globe Awards, 82 premi principali e 211 nomination per la prima; una ventina di premi speciali, per la seconda) ne hanno decretato un successo senza precedenti. La concomitanza della messa in onda e l’enorme popolarità ottenuta sono circostanze curiose se pensiamo che entrambe le opere televisive hanno, per protagoniste, famiglie italiane emigrate nelle Americhe.
Nel caso dei Sopranos, l’intreccio narrativo si sviluppa per intero fra i più scontati stereotipi sugli italoamericani, seppure stemperati da ironia, umorismo e dal largo utilizzo di espedienti retorici. Gli italiani sono dipinti come mafiosi, adulteri e portatori di una sottocultura che ha come principali caratteristiche la violenza e la volgarità intellettuale.
Di tutt’altro genere la visione che degli immigrati italiani viene data in Terra Nostra dove Giuliana e Matteo, i protagonisti di una travagliata storia d’amore, sono due candidi giovani di umili origini che si incontrano proprio sulla nave che li sta portando dall’Italia al Brasile, negli ultimi anni dell’Ottocento. Pur con linguaggi televisivi e schemi narrativi completamente diversi – le 6 serie di Sopranos sono andate in onda per otto anni mentre i 221 capitoli di Terra Nostra si sono susseguiti quotidianamente per 9 mesi – entrambi i lavori sono presto diventati dei programmi di tendenza, veri e propri cult.
In particolare Terra Nostra, che in Brasile ha toccato il 70% di share con punte di 60 milioni di telespettatori, ha fatto segnare uno straordinario quanto inaspettato risveglio di italianità fra gli oltre 30 milioni di oriundi che vivono nel Paese verde-oro. Un’onda lunga che dura fino ad oggi, se è vero che da allora si sono moltiplicate le domande di riconoscimento della cittadinanza italiana, sono fiorite ovunque feste tricolori, e sono aumentati a dismisura corsi di lingua e di cultura italiana, anche a livello universitario. Un bel risultato per il nostro Paese.
Fra gli artefici del successo di Terra Nostra (che da luglio a settembre di quest’anno è stata proposta nuovamente in Italia da RAI 3) c’è il regista Jayme Monjardim Matarazzo, 52 anni, personaggio di spicco del mondo televisivo brasiliano, e appartenente a una storica famiglia d’origine italiana trapiantata in Brasile.
«Attraverso quella telenovela – confessa Monjardim nella sua casa di Rio de Janeiro – sono riuscito a ricreare personaggi, atmosfere, musiche… per raccontare nella maniera più fedele possibile le vicende di quell’antica emigrazione. Ci ho messo dentro tutte le mie emozioni, tutto il mio sentimento d’amore per la madrepatria, ma anche l’enorme riconoscenza nei confronti di coloro che fecero quei viaggi di sola andata. Credo proprio di esserci riuscito. Uno dei momenti più incredibili è stato quando abbiamo ricostruito, nel Porto di Santos, l’arrivo dei nostri emigrati. Quando ripenso a quelle giornate, mi viene la pelle d’oca anche se sono passati dieci anni. Tutto era estremamente realistico. Per girare quella scena avevamo scelto solo persone d’origine italiana, e nei loro volti c’era una grande emozione, un’emozione vera perché ognuna di quelle settecento comparse stava realmente rivivendo un pezzo della personale storia familiare. C’era nell’aria una commozione indescrivibile, accentuata da una luce stupenda, come se tutti gli elementi della natura si fossero messi d’accordo per darci una mano a creare un vero e proprio quadro. È stato, senza dubbio, il momento più impressionante della mia vita».
Meneghini. Anche per lei è stato come cavalcare una macchina del tempo e rivivere l’arrivo in Brasile di un certo Francesco Matarazzo…
Monjardim Matarazzo. Proprio così. La storia di Francesco, che in famiglia ci tramandiamo di generazione in generazione, è molto appassionante. A quell’epoca le navi non approdavano direttamente sulla banchina del porto, ma gettavano le ancore un po’ fuori, e così i passeggeri, per giungere a riva, erano costretti a trasbordare su una piccola barca. In quel passaggio, Francesco scivolò in mare e perse le poche cose che aveva. Così, possiamo dire che mise piede in Brasile praticamente senza nulla…
…Ma per diventare, qualche decennio più tardi, il secondo uomo più ricco della terra, dopo Henry Ford.
Francesco Matarazzo era un uomo che aveva un sogno grande e ambizioso. Un sogno che raggiunse iniziando a vendere grasso di maiale per arrivare, nei primi anni del Novecento, a fondare il più grande impero economico dell’America Latina del XX secolo. Come ci riuscì? Lui era solito dire che la fortuna era molto importante per il successo, ma che alla base doveva esserci lavoro, lavoro, e ancora lavoro.
In effetti il nome dei Matarazzo è indissolubilmente legato al grande boom industriale e demografico della San Paolo del primo Novecento. Industrie manifatturiere, chimiche, alimentari, banche, compagnie di assicurazione e di navigazione… Almeno 30 mila dipendenti a libro paga, moltissimi dei quali arrivati dall’Italia, impiegati in 365 aziende sparse in tutto il territorio nazionale.
Ma il nome dei Matarazzo non fu solo sinonimo di potere economico. I miei avi furono molto attivi anche sotto il profilo sociale fondando, ad esempio, ospedali e varie altre istituzioni assistenziali. Senza contare i cospicui aiuti economici che Francesco inviò in Italia durante la Prima Guerra mondiale, e che gli valsero, come segno di riconoscenza del re, il titolo di conte.
Sul piano della cultura, mi piace ricordare che, dopo Francesco, Cicillo Matarazzo (1898-1977) è considerato un grande mecenate, forse il più generoso che abbia mai avuto San Paolo. Fu lui, nel 1946, a finanziare la costruzione del Museo d’Arte Moderna di San Paolo (MASP), a creare la Biennale d’Arte, e a favorire il sorgere di movimenti culturali e artistici, compresa la cinematografia brasiliana.
Torniamo a Terra Nostra e all’enorme, forse inatteso, successo della telenovela. Cosa riusciva, ogni sera, a tenere incollati al video decine di milioni di telespettatori brasiliani?
La gente, fin dai primi capitoli, si è identificata nelle vicende dei protagonisti. Il fatto è che il nostro sentimento per l’Italia è a volte più profondo di quello che provano gli stessi italiani che risiedono in Italia. Non ne so spiegare il motivo, ma qui la gente vive ancora le proprie origini italiane in modo molto intenso, profondo. Ricordare, rivivere, fare ricerche, archiviare lettere e documenti dei nostri avi, progettare un viaggio nel Belpaese, raccogliere vecchie foto: sono tutte cose che ci fanno stare bene. Ci emoziona molto rimanere legati all’Italia, alle nostre origini, anche se oggi la nostra vita è qui in Brasile.
Un sentimento che condivide anche lei?
Non è raro che io mi senta molto più italiano che brasiliano. Forse è dovuto al fatto che ho vissuto per molti anni in Europa, prima in Spagna e poi anche in Italia; o forse perché mi occupo di cinema e di televisione e in tutti i miei lavori mi sono ispirato a maestri come Rossellini e Fellini. Sta di fatto che questo intenso legame con l’Italia si manifesta nella mia quotidianità e in tutte le relazioni con gli amici o con la famiglia.
Pensi che recentemente ho avuto l’opportunità di tornare a Castellabate, in provincia di Salerno, da dove, nel 1881, partì quel Francesco Matarazzo. Ebbene, ho scoperto la casa dove nacque il mio bisnonno – casa, purtroppo, in stato di semi-abbandono –, e mi sto adoperando per poterla acquistare. Il mio sogno è di riunire di nuovo tutta la famiglia Matarazzo, molto presto, e di tornare tutti assieme “a casa” per fare una grande festa. Direi che più che un sogno è un progetto sul quale sto lavorando concretamente.