Fisarmonica, una storia italiana
L’Italia è il Paese della musica. È la patria di Claudio Monteverdi, il compositore che segnò il passaggio dalla musica rinascimentale a quella barocca; di Domenico Scarlatti, e del «prete rosso» Antonio Vivaldi. È la culla del bel canto, dell’Opera lirica e della canzone popolare. Ma l’Italia è anche il Paese degli strumenti musicali, frutto di una sapienza artigianale che il mondo ci invidia. I violini, le viole e i violoncelli cesellati tre secoli fa nei laboratori cremonesi di Antonio Stradivari, Giuseppe Guarneri, detto «del Gesù», e Nicola Amati, oggi sono ricercatissimi da fondazioni giapponesi, magnati russi, tycoon statunitensi, che se li contendono a suon di milioni di dollari nelle aste internazionali. Accanto a questi autentici gioielli, dobbiamo ricordare la fisarmonica di cui l’Italia è considerata la patria. Uno strumento musicale più giovane e decisamente più popolare.
Sebbene il primo brevetto di un «accordion» (l’altro nome con cui è conosciuta la fisarmonica) fosse stato depositato a Vienna nel 1829, è in Italia che si affinò, qualche decennio più tardi, la tecnica costruttiva dello strumento. In principio – siamo all’epoca dell’unificazione dell’Italia – prese piede l’organetto, ovvero una fisarmonica diatonica dalle limitate possibilità musicali, ma di estrema maneggevolezza, prodotta, oltre che in Italia, anche in Germania, in Francia e nell’Est europeo. Considerato il padre della fisarmonica vera e propria, l’organetto ebbe un enorme successo nell’ambito della musica popolare, e ben presto il suo uso si estese alle Americhe, grazie anche agli emigrati che dal vecchio continente andavano a cercare fortuna oltreoceano.
Nel frattempo, però, alcuni pionieri gettavano le basi della gloriosa tradizione della fisarmonica «made in Italy». Tra questi, Mariano Dallapè, un trentino trapiantato a Stradella, nell’Oltrepò pavese. A lui si deve un innovativo prototipo del 1871 ma, soprattutto, la creazione della fisarmonica cromatica, cioè la moderna fisarmonica. Pochi anni prima, nella cittadina marchigiana di Castelfidardo (Ancona), quattrocento chilometri a sud-est di Stradella, altri geniali artisti-operai avevano iniziato a produrre, in forma artigianale, i primi organetti, riscuotendo un grande successo.
Alle origini del mito
La storia racconta che Paolo Soprani conobbe questo strumento grazie a un pellegrino austriaco che, in visita al vicino Santuario di Loreto, aveva chiesto ospitalità nel casolare dei suoi genitori. Tra i bagagli del forestiero, Paolo era stato colpito da una «scatola» che emetteva dei suoni dolci, mai ascoltati prima. A questo punto, non si sa se l’ospite donò l’organetto al ragazzo o se questi, nottetempo, fu capace di smontarlo e rimontarlo per capire come fosse costruito. Sta di fatto che, un anno più tardi, nel 1864, Paolo Soprani, con l’aiuto dei fratelli, aprì una piccola bottega sotto casa: nasceva così l’industria italiana della fisarmonica. Il successo fu straordinario. Agevolato dal fatto che Loreto era un importante crocevia di gente proveniente da molte regioni, Soprani andava ogni settimana nella cittadina mariana a far sentire ai pellegrini il suono dei suoi strumenti, e non aveva alcuna difficoltà a venderli tutti. Gli ultimi anni del secolo XIX sono quelli in cui, a Stradella e a Castelfidardo, sorgono i primi distretti della storia industriale del nostro Paese: gli operai che avevano imparato il mestiere all’interno delle prime aziende, si mettevano in proprio, creando sviluppo e nuovi posti di lavoro.
A Stradella, questi artigiani si chiamano Maga, Tesio, Massoni, Rogledi, Crosio, Migliorini, Lucchini; a Castelfidardo, Dari, Busilacchio, Gigli, Moreschi, Magliani, Serenelli, Brandoni.
Per le cittadine di Stradella e Castelfidardo, che all’epoca avevano poche migliaia di abitanti, quasi tutti dediti all’agricoltura, si trattò di una vera e propria manna. Oltre agli operai impiegati in decine di fabbriche, questi due poli industriali davano lavoro a una miriade di fornitori e di assemblatori, con un largo ricorso anche alla manodopera a domicilio. Praticamente ogni famiglia della comunità era coinvolta nella lavorazione della fisarmonica, tanto che passeggiando lungo le vie di queste località, si era accompagnati dal suono dolce dell’ancia, proveniente dalle case degli accordatori e «sgrossatori» di voci.
Per spiegare il fatto che la produzione della fisarmonica rimase – e rimane – limitata a due sole cittadine in tutta Italia, è necessario ricordare che questo strumento è un capolavoro di meccanica fine, formato da centinaia di minuterie costruite con i materiali più vari: legno (abete, mogano, acero e noce), acciaio, duralluminio, ottone, feltro, pelli di agnello e capretto, cuoio, celluloide e cera vergine. Per fare una buona fisarmonica ci vuole tanta manualità e una sapienza artigianale tramandata di padre in figlio, che non si può certo replicare facilmente.
Il primo periodo d’oro terminò nel 1929 quando la recessione mondiale fece crollare le esportazioni, che nel frattempo avevano raggiunto decine di migliaia di pezzi l’anno. A questo proposito, è opportuno sottolineare che la fisarmonica italiana si impose in tutto il mondo grazie alla qualità del prodotto (che surclassava gli strumenti realizzati in Germania, Russia e Francia), alla straordinaria «cassa di risonanza» offerta dai nostri emigranti, e anche grazie alle efficaci azioni di marketing dei costruttori nazionali, alcuni dei quali aprirono succursali all’estero.
Pezzi da museo
La fisarmonica tornò in auge in corrispondenza degli anni della ricostruzione post-bellica. Un nuovo boom che segna la nascita di moderne aziende (il colosso Farfisa, per esempio, si forma dalla fusione della Soprani con la Scandalli), e nuovi record d’esportazione: 200 mila strumenti nel 1953. Poi, di nuovo, una fase di declino in corrispondenza dell’affermarsi di nuovi gusti musicali, e con l’avvento della chitarra elettrica, tanto cara alla generazione dei Beatles. Ma, come un’araba fenice, in questi ultimi anni la fisarmonica italiana sta tornando in auge, questa volta come protagonista di un repertorio molto più ricercato, erudito, abbandonando quasi definitivamente il ruolo tipicamente folkloristico che ne segnò i primi successi. Un grande merito di questa importante trasformazione va all’italo-argentino Astor Piazzolla (1921-1992), compositore e virtuoso di bandoneón (stretto parente della fisarmonica), i cui brani sono entrati a pieno titolo nella musica «colta». Di origini italiane è anche il sessantenne francese Richard Galliano, stella mondiale del jazz, che ha efficacemente introdotto la fisarmonica in questo sofisticato genere musicale, dopo le sperimentazioni di alcuni artisti statunitensi, e del mantovano Gorni Kramer. Seguendo questo «filo rosso» che lega la produzione italiana di fisarmoniche ai grandi interpreti, non si può non ricordare che a vantare origini mantovane è perfino il brasiliano Renato Borghetti, «re» della gaita ponto (ovvero la fisarmonica diatonica), che con la sua musica ha saputo coniugare il jazz con le tradizioni popolari gaúche. La storia di questo vanto del «made in Italy», che corre di pari passo con alcune tappe fondamentali della storia del nostro Paese (l’unificazione, i flussi migratori, l’epoca fascista, i conflitti mondiali, la ricostruzione, il miracolo economico) è raccolta nel Museo della Fisarmonica di Castelfidardo – oltre 350 esemplari in mostra – ospitato nel palazzo comunale della cittadina marchigiana.