L'eredità di Giovanni Paolo II

La beatificazione, che sarà proclamata il primo maggio prossimo, è l'occasione per riflettere sulla testimonianza e l'insegnamento che questo grande pontefice ha saputo lasciare al mondo contemporaneo.
15 Marzo 2011 | di

«Annuncia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina»: l’incitazione fatta dall’apostolo Paolo a Timoteo, è la stessa che il Signore rivolge ogni giorno alla sua Chiesa e, segnatamente, a quanti sono da Lui chiamati a essere suoi ministri. Tra questi, per quasi 27 anni, dall’ottobre del 1978 all’aprile del 2005, nel ruolo più importante e più difficile, quello di Vescovo di Roma, c’è stato  Giovanni Paolo II, la cui beatificazione sarà proclamata il prossimo primo maggio in piazza San Pietro dal suo successore, Benedetto XVI. Questo Papa ha indicato mirabilmente quale sia  l’identità del pastore di anime, del testimone del Vangelo, del ministro della Parola e dell’Eucarestia. Una grande eredità donata alla Chiesa e al mondo.
L’asciuttezza della visione storica contribuirà a esaltare l’essenziale, a decantare le emozioni ancora forti e vive, il connubio d’incertezza e speranza, di dolore e fiducia che segna ogni vicenda umana e quindi anche quella di Giovanni Paolo II e della Chiesa di questi anni. Ma oggi proprio l’emozione della sua beatificazione offre l’opportunità non solo per meditare da figli sul mistero della santità, ma anche di riflettere sulla sua eredità storica, sull’aspetto, per così dire, politico del suo pontificato. L’azione svolta da Giovanni Paolo II si è delineata negli anni non solo come quella del capo di una grande religione, ma come la «voce di chi non ha voce», l’avvocato e il difensore delle vittime delle infinite ingiustizie che ancora segnano il cammino dell’uomo. In questo si iscrive anche il «profetismo» di quel Papa, che accentuò e allargò il percorso tracciato da Paolo VI e dal Concilio Vaticano II, rifiutando di adeguarsi per comodità a sistemi e comportamenti politici e diplomatici troppe volte sperimentati come fallimentari. Giovanni Paolo II lo fece puntando non sull’autorità, ma su un’autorevolezza che era sì personale, ma che era anche e soprattutto espressione e somma dell’autorevolezza conquistata dai tanti cattolici impegnati nel servizio all’uomo, siano essi laici o religiosi, missionari o popolo di Dio che si dedica al volontariato di casa propria.
Nel solco dei predecessori
A quanti nell’elezione del Papa polacco vollero leggere una frattura con il passato, si oppone la realtà di un pontificato che seppe continuare l’opera dei predecessori e, specialmente, la grande lezione ecumenica e internazionalista di Paolo VI.  In uno dei suoi discorsi di maggior rilievo, quello tenuto all’Onu nel 1995 in cui invitava tale assise a farsi «Famiglia di Nazioni», Giovanni Paolo II affermava che «il mondo deve ancora imparare a convivere con le diversità» e poneva l’attenzione sul valore di ogni cultura, essendo essa «uno sforzo di riflessione sul mistero del mondo e in particolare dell’uomo».  Giovanni Paolo II faceva emergere accanto all’esigenza di una autorità mondiale, già ipotizzata dalla Populorum progressio di Paolo VI nel 1967,  quella del rispetto delle etnie e delle culture, non certo intese come realtà rigide e indeformabili, ma in continua evoluzione, attraverso il contatto e il rapporto con altre culture e per il susseguirsi delle generazioni portatrici sempre di bisogni nuovi.
Oggi sembra difficile parlare di Giovanni Paolo II in termini di continuità con i predecessori, soprattutto quando ci si rivolga a dei giovani. Per intere generazioni, infatti, questo Papa è l’unico che abbiano conosciuto. Ma pure, a indagarne realmente l’opera, la si riconoscerebbe pienamente introdotta nel solco del Concilio, anche se un simile riconoscimento è ancora prematuro.
Del resto la nostra sembra più un’epoca di divulgazione che una di approfondimenti. L’esaltazione dello star system non ama l’indagine, ma l’immagine. E se c’è un pericolo in questa beatificazione è proprio quello della spettacolarizzazione. Purtroppo, in un’epoca dominata dai mezzi di comunicazione di massa, molti sono costretti a fermarsi all’apparenza. E così, nel 1978, all’inizio del pontificato giornali e televisioni indugiavano superficialmente sul «papa sciatore», sul «papa in piscina», alla fine, nel 2005, l’attenzione morbosa si spostò sui suoi passi incerti, le sue condizioni di salute, quasi che la vista della fragilità umana, potesse in qualche modo intaccare l’eterna giovinezza della «roccia di Pietro». Il Papa non è «giovane» perché si mette a cantare con i giovani o perché «i giovani lo sentono uno di loro», come per tanti anni ciclicamente scrissero tanti commentatori dell’ultimo minuto. Se lo è – e per Giovanni Paolo II fu così – è a motivo della «normale» condizione del sacerdote, che è sì presbitero (anziano) per definizione, ma è anche quegli che, come si recitava una volta all’inizio della Messa, si accosta ogni giorno all’altare del Signore che «la giovinezza rende lieta». Insomma, per capire davvero Giovanni Paolo II forse sarebbe il caso di smettere le iperboli celebrative e di ricorrere al profilo della normalità.
Una santità normale
Persino nell’aspetto in cui il Papa è più tale, la proclamazione di santi e beati da indicare alla venerazione dei fedeli, come oggi accade per lui stesso, Giovanni Paolo II scelse la strada della «santità normale», indicò – in un numero più che rilevante di casi – che la chiamata alla sequela di Cristo è universale e ordinaria al tempo stesso e che a essa si può e si deve rispondere in ogni condizione di vita e, soprattutto, in ogni circostanza storica.
 In questo si iscrivono, soprattutto, gli appelli, i messaggi, i colloqui di quel Papa con i «grandi» di questo mondo. In questo si comprende il senso del suo accorato invito all’Onu, ripetuto in ogni possibile occasione, al punto da diventare la concezione politica essenziale che affianca oggi la dottrina sociale della Chiesa, quando si concretizza nel servizio all’umanità. Per affrontare tale questione, per rilanciare una cooperazione autentica e feconda di prospettive positive per tutti, occorre uno stile di rispetto prima ancora che una improbabile «ricetta di sviluppo» che possa essere valida per tutti.
Questo disse per ventisette anni Giovanni Paolo II e il suo magistero ci lascia anche il modo per individuare gli strumenti: l’incontro come metodo, l’amicizia come aspirazione, l’ascolto come impegno. Chi scrive ha ancora negli occhi, nelle orecchie, nella memoria, una delle pagine più alte del suo pontificato,  quella vissuta in una Sarajevo ancora segnata dalla guerra più feroce, combattuta in Europa dopo il 1945. Giovanni Paolo II chiese di usare «il dialogo come metodo per arrivare alla soluzione dei problemi», avvertì che «richiede lealtà, coraggio, pazienza e   perseveranza»,  ma ricordò  che «la fatica del confronto sarà  ampiamente ripagata».
Di Giovanni Paolo II si è detto e si continuerà a dire molto. Non sempre si sottolinea come egli sia stato soprattutto uomo di preghiera. Nei ventisette anni di servizio petrino se ne trovano molti esempi. Basti citare quello che da oltre un quarto di secolo viene chiamato lo «spirito di Assisi». Essere insieme per pregare, ciascuno secondo la propria tradizione religiosa:  fu  questa scelta di fraternità a accendere una luce di speranza nel grande incontro interreligioso convocato nel 1987 da Giovanni Paolo II nella città di Francesco e di Chiara ad Assisi. Sono gli impegni connessi a questa scelta che tante donne e uomini cercano di mantenere, di sostanziare, di assolvere, per farsi cittadini dell’ideale, costruttori di pace, autori ed esponenti di una «politica» diversa che si sostituisca alle obsolete e miopi politiche di potenza e di interesse.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017