Le incognite che ci attendono
WASHINGTON
Con la conferma di George W. Bush alla Presidenza degli Stati Uniti si avvia a conclusione un anno tra i più tragici e sanguinosi della storia recente. Le immagini più emblematiche di questo 2004, infatti, restano quelle terribili dell";attentato terroristico dell";11 marzo a Madrid, quelle atroci delle violenze sempre più efferate in Iraq, quelle terrificanti del massacro di settembre nella scuola di Beslan nella Repubblica Russa dell";Ossezia del Nord, quelle sconvolgenti delle spaventose crisi africane. Tra di esse, in questi mesi si è esasperata quella nel Darfur, la regione occidentale sudanese teatro di quella che i rapporti dell";Onu definiscono come la maggiore emergenza umanitaria oggi in atto nel mondo, e che purtroppo gran parte dei mezzi di comunicazione del Nord ricco del mondo continuano colpevolmente quasi ad ignorare.
Europa e Asia, outsider o potenze emergenti?
In questo fosco orizzonte internazionale, i motivi di inquietudine sembrano sovrastare quelli di speranza, che pure gli osservatori più attenti non tralasciano di indicare. Tra questi, si segnalano fatti addirittura storici che il 2004 ha portato con sé, come l";allargamento dell";Unione Europea a 25 nazioni e la firma a Roma della Costituzione europea; come il negoziato avviato da India e Pakistan, due potenze nucleari, per risolvere in modo finalmente pacifico il pluridecennale conflitto sul Kashmir; come l";annunciata prossima costituzione di un";Unione Sudamericana destinata a consentire all";America Latina un più organico sviluppo economico e sociale.
La vittoria di Bush ha un impatto comunque determinante sul mondo nei prossimi anni. E le premesse sembrano poco incoraggianti: innanzitutto, i risultati hanno confermato la profonda divisione che attraversa il popolo della maggiore potenza mondiale, e non si sono discostate, di fatto, dalle dinamiche di quattro anni fa. Eppure, in quattro anni tutto è cambiato: Bush, intorno al quale si era coesa l";intera nazione dopo gli attacchi terroristici dell";11 settembre 2001, ha di fatto perso gran parte di quel patrimonio di consensi e al tempo stesso "; quel che più conta "; le sue politiche hanno dilapidato il «capitale» di simpatia e di solidarietà internazionali che quel terrificante avvenimento aveva garantito al popolo ferito degli Stati Uniti.
Nel quadriennio di Bush, si è volatilizzato l";attivo del bilancio federale lasciato da Clinton e si è creato il maggiore deficit mai registrato nella storia del Paese, mentre l";economia ha registrato una netta frenata "; anche se sembra annunciarsi per i prossimi mesi un";inversione di tendenza ";, il potere d";acquisto del ceto medio è stato drasticamente ridotto e sono drammaticamente aumentate le percentuali di poveri privi di assistenza sociale e sanitaria.
Ciò nonostante, il Paese ha confermato Bush alla sua guida con un voto inequivocabile: lo dimostrano sia l";accresciuta maggioranza repubblicana al Congresso, sia il totale dei voti popolari per la presidenza.
L";aumentata affluenza al voto, tornata a circa il 60%, sui livelli cioè degli anni Sessanta, non ha premiato i democratici, come la quasi totalità degli osservatori ritenevano alla vigilia e persino ad urne aperte. Insomma, gli statunitensi si sono contati, e Bush ha avuto più voti. Non bisogna ricorrere a chissà quale «sapienza politica» per capire che il fattore decisivo è stata la convinzione del popolo statunitense di essere in guerra. E mai nella storia degli Usa un presidente è stato cambiato nel corso di una guerra. Il riferimento, ovviamente, non è tanto alla specifica guerra in Iraq per la quale sarebbero bastate "; in un Paese dove la stampa esercita ancora una funzione di servizio al pubblico e non solo di schieramento ideologico "; la metà delle affermazioni fatte da Bush, e rivelatesi false, a travolgere qualsiasi sua possibilità di rielezione, ma sulla guerra contro il terrorismo. Su questo, soprattutto su questo, si basa la fiducia che ben oltre la metà degli elettori hanno rinnovato a Bush. «Posso aver ragione o posso sbagliare, ma io non cambio mai idea»: è stato questo uno slogan ripetuto fino all";ossessione da Bush, che ha puntato "; e vinto, se non convinto "; proprio sul fatto che Kerry avrebbe invece spesso rivisto le sue posizioni, il che in tempi normali è certo segno di onestà intellettuale, ma in tempi drammatici come quelli in cui viviamo può facilmente essere scambiato per indecisione.
È vero che di solito gli americani scelgono il loro presidente, com";è d";altra parte giusto, in base a criteri sostanzialmente di interessi interni quando non addirittura personali. È vero che un peso determinante hanno le cifre investite dai candidati e che l";amministrazione pubblica negli Stati Uniti, dal massimo livello federale all";ultimo municipio, è anche frutto del contemperamento tra le pressioni delle diverse lobby, peraltro completamente legali, e che in qualche modo paga i debiti contratti con i finanziatori delle campagne elettorali. Ma è altrettanto vero che mai come questa volta hanno contato i fattori internazionali.
Il mondo nelle mani di 58 milioni di elettori
L";influenza della Presidenza degli Stati Uniti sui destini del mondo è massiccia proprio nella politica estera, in quella di difesa e nel commercio internazionale. Proprio in questo i poteri del presidente sono più ampi. Tradizionalmente, le amministrazioni repubblicane sono solite accentuare le politiche isolazioniste in campo politico, e protezioniste in campo economico. In un mondo estremamente interdipendente, un tale atteggiamento si è mutato però nell";ultimo triennio in un modo che a molti è apparso addirittura nefasto, fino ad ispirare il dissennato concetto di «guerra preventiva», una filosofia che nulla ha da spartire con il diritto delle genti, come tante volte ha ricordato, tra gli altri, il Papa.
Ciò nonostante, non mancano gli osservatori che ritengono probabile un mutamento sostanziale di indirizzo delle politiche di Bush per il suo secondo mandato. Proprio la vicenda irachena, con la ormai riconosciuta necessità di «tirarsi fuori dal pantano», per usare un";espressione che rimanda alla guerra in Vietnam, potrebbe convincere l";amministrazione di Washington a puntare su un multilateralismo finora ignorato, se non apertamente irriso.
Ma allo stato attuale, ciò appare più un auspicio che una previsione. Saranno i prossimi mesi e i prossimi anni a dire se prevarrà la convinzione di una collaborazione strategica internazionale "; con un particolare rilievo a quella tra Stati Uniti ed Unione Europea "; per affrontare diverse sfide determinanti per il futuro dell";umanità , quali le crisi in Medio Oriente, la tragedia dell";Africa, i rapporti con le variegate componenti del mondo islamico, la minaccia del terrorismo internazionale, i giganteschi problemi ambientali, le questioni commerciali, le implicazioni delle biotecnologie. Soprattutto "; ed anche in questo sarà determinante il rapporto tra Usa ed Europa "; saranno i prossimi mesi a dire se verrà rafforzato il sistema multilaterale di governo mondiale, specialmente per quanto riguarda il ruolo e i poteri delle Nazioni Unite e quelli della WTO, la World Trade Organization, l";Organizzazione mondiale del commercio.