Lo strano caso di Bedford
Londra
Nella secolare storia dell’emigrazione italiana verso la Scozia e l’Inghilterra, le cui radici affondano già nel Medioevo con la presenza di musicisti, banchieri, monaci e artisti provenienti dalla nostra penisola, Bedford, cittadina a una settantina di chilometri da Londra, rappresenta davvero uno «strano caso». A definirlo così è Lucio Sponza dell’Università di Westminster, storico e studioso del fenomeno migratorio, chiamato a dissertare sull’argomento insieme ad altri emeriti colleghi che hanno analizzato il caso di questa città in un convegno tenutosi di recente nella capitale inglese. Organizzata dagli atenei di Cambridge e di Napoli, insieme alla Regione Campania, al Consolato di Londra e all’Enaip, l’Ente Nazionale Acli Istruzione Professionale, questa giornata di studi ha fatto emergere una realtà di grande interesse socio-culturale, forse relegata un po’ in secondo piano a causa dei riflettori puntati verso il continente americano o altri Paesi europei dove gli italiani emigrarono numerosi e là stabilirono comunità di svariate decine di migliaia di individui. Secondo Sponza, infatti, Bedford rappresenta un esempio pressoché unico di comunità formatasi nel giro di pochi anni per la massiccia immissione di manodopera italiana nel mercato del lavoro: gli uomini nel settore metallurgico e siderurgico, e le donne nelle industrie tessili, delle ceramiche e nei servizi ausiliari presso ospedali e istituzioni pubbliche. A Bedford, infatti, in un censimento del 1951 si contavano 34 mila italiani di cui il 61% erano donne. A confermare l’importanza di questa comunità è la dottoressa Laura Lepschy titolare di cattedra a Londra e a Toronto, e organizzatrice del Convegno: «Volevamo far riflettere sul contributo italiano nella ricostruzione dell’Inghilterra nel secondo dopoguerra. Agli italiani che, grazie ad accordi tra i nostri due Paesi, furono impiegati in massa soprattutto nelle fabbriche di mattoni intorno a Bedford e a Peterborough, non sempre è stato riconosciuto il giusto merito per avere svolto un lavoro faticoso e in condizioni di vita precarie».
La professoressa Lepschy, nota per il suo coinvolgimento in molte attività culturali a favore della diffusione della lingua e della cultura italiana, aggiunge che «l’Inghilterra, per la sua struttura classista nonché per le barriere socio- linguistico-culturali, non ha favorito l’integrazione dei nostri connazionali, relegati dapprima nelle miniere o nelle fabbriche, e poi nell’ambito della ristorazione». Un dato, questo, che rileva anche Giuseppe Scotto, giovane ricercatore dell’Università di Sussex: «Anche se l’immigrazione del secondo dopoguerra non ha suscitato reazioni xenofobe paragonabili a quelle dell’Ottocento contro i suonatori di organetto o i venditori di gelati, né a quella degli anni Trenta per l’avventura coloniale fascista, gli italiani hanno dovuto faticare per farsi strada nella società inglese ed è per questo che si sono coesi in una comunità molto forte e strutturata». Analizzando, in particolare, le differenze principali tra la vecchia e la nuova emigrazione, Scotto sottolinea che anche se la prima ondata migratoria si è conclusa negli anni Settanta, e ora esiste una seconda e una terza emigrazione rappresentata per lo più da giovani e giovanissimi, resta sempre forte il desiderio di ritorno a quella che gli emigrati chiamano spesso «patria» anche se non senza un po’ di amarezza: «Gli anziani, soprattutto, anche se non hanno più la nostalgia dell’Italia perché la visitano più spesso, e sono ad essa collegati dalla televisione e dai giornali – mentre i giovani utilizzano soprattutto internet – coltivano ancora il desiderio di tornare nel proprio paese d’origine, specie in Campania, da cui proviene la grande maggioranza degli emigrati degli anni Cinquanta».
La comunità con queste caratteristiche era già stata studiata negli anni Settanta da Arturo Tosi, accademico presso varie Università londinesi e italiane, quando essa era al culmine della sua importanza come numero di entità ma anche di persone affermate nel mondo del lavoro e nelle attività sociali. Questo sentimento resta ancora oggi molto vivo come ha rilevato Margherita Di Salvo, dottore di ricerca presso il Dipartimento di Filologia dell’Università Federico II di Napoli che può confermare il legame degli emigrati soprattutto con la propria città d’origine: «Molti italiani provengono da Montefalcione, da Avellino, da Benevento, ed è lì che vorrebbero tornare, ma sanno che il loro possibile rimpatrio è, il più delle volte, un’illusione». Essi, infatti, appartengono ormai a una comunità stanziale, formata da uomini e donne con le stesse origini che si sono sposati a Bedford, e i cui figli lì sono cresciuti. Talvolta essi hanno investito cospicue somme in Italia, chi con un negozio di «Fish and Chips» o chi, per esempio con una birreria, in provincia di Benevento, ma resta in loro una certa acrimonia nei confronti dell’Italia che non offrì abbastanza opportunità lavorative obbligandoli ad emigrare». Di Salvo aggiunge anche che «I nostri connazionali sono critici verso il governo italiano – indipendentemente dall’orientamento politico – sia per una legge elettorale che poteva rappresentarli meglio sia, nella fattispecie, per aver ridotto il Consolato di Bedford a uno sportello che offre soltanto alcune pratiche costringendoli a recarsi a Londra per l’ottenimento di altri documenti».
I tagli finanziari che hanno penalizzato non soltanto Bedford, sono stati interpretati come un ulteriore abbandono. Ma, in controtendenza, il console generale Uberto Vanni d’Archirafi, da poco insediatosi nella sede consolare di Londra, ha caldeggiato il convegno nonché la partecipazione di un folto gruppo di rappresentanti della comunità di Bedford proprio per dimostrare che le istituzioni, in primis, non vogliono dimenticarsi dei connazionali che a Bedford hanno messo le proprie radici. Ad essi, lo scorso settembre, Giuseppe Martichetti, artista di Montefalcione, ha dedicato un monumento di cemento bronzato. Bedford anche per la connotazione geografica più delimitata rispetto a Londra – sede della più grande comunità italiana in Inghilterra, ma più dispersa sul territorio – ruota attorno ad alcuni punti di riferimento: i bar italiani, l’Italian Club e la Chiesa della Missione Italiana dei Padri Scalabriniani fondata nel 1965 dove opera l’instancabile don Mario che riesce a coinvolgere grandi e piccini in varie attività parrocchiali ma anche culturali e folkloristiche. «A maggio – continua Margherita Di Salvo – tutta la comunità partecipa a una messa solenne in onore dei sette santi patroni che rappresentano le rispettive città di provenienza degli emigrati: santa Lucia di Cava de’ Tirreni, san Lorenzo da Busso, san Ciriaco, sant’Antonio, ecc. La fede è ancora parte integrante della vita degli emigrati sia anziani che giovani». La religione aggiunge un carattere fondamentale di provenienza per questi «italians» in Inghilterra e «inglesi» in Italia. I matrimoni ma anche i funerali con la messa cantata per accompagnare uno di questi grandi vecchi che se ne va, sono sempre affollati. E anche se, inevitabilmente, la comunità a Bedford si sta assottigliando anche perché la nuova emigrazione si dirige a Londra o a Edimburgo, gli italiani restano tra loro uniti anche quando si sposano con un coniuge di un’altra nazionalità.
Sono proprio i giovani che con il loro bagaglio culturale e professionale danno un nuovo volto alla comunità: «Oggi – commenta Margherita Di Salvo – si incontrano su Facebook. Organizzano eventi “made in Italy”, spettacoli teatrali, conferenze ecc.». Alcuni di loro tornano perfino a lavorare in Italia nel mondo accademico o nelle grandi multinazionali, incrementando il fenomeno dell’emigrazione di ritorno. L’asse Bedford-Italia-Campania è molto vivace e ricco di spunti sia per l’analisi di una generazione di italiani coraggiosi e generosi che hanno aperto la strada per le ondate emigratorie successive, sia perché rappresenta un fenomeno unico di italianità, al di fuori dei confini nazionali.