CLINTON «FOR PRESIDENT»?
Come politico, non c";è presidente americano dell";ultimo quarto di secolo, democratico o repubblicano, che non abbia dovuto fare i conti con l";influentissimo Bob Dole, per far passare o bloccare una legge. Così Dole è diventato un po"; il simbolo del politician, del politico di apparato, deputato per otto anni, senatore per ventotto, e capogruppo repubblicano per dodici. Ma questi sono anche i suoi limiti di fronte all";opinione pubblica, che "; negli Usa come ovunque nel mondo "; non ama molto i politici di professione, predilige un outsider, un professionista imprestato momentaneamente alla politica, o un uomo comune.
È per questo che lo stesso Clinton preferisce avere contro di sé questo tipo di candidato, considerandolo meno competitivo. Su Dole si ricorda una battuta di Nixon, che pure lo aveva designato alla guida dei repubblicani. L";ex presidente dimissionario lo aveva «demolito» dicendo: «Ha una brutta immagine televisiva», riferendosi a un";espressione troppo rigida e seria, che talvolta tende al cupo e allo stizzoso. E poi, con i suoi settantadue anni, Dole è staccato di un";intera generazione (ventidue anni) dall";appena cinquantenne Bill Clinton.
Di fronte allo sfidante repubblicano, il candidato democratico Clinton presenta un bilancio di quattro anni di presidenza non entusiasmante, ma che conquista la sufficienza piena. Va benino l";economia, che era stata il cavallo di battaglia della precedente campagna elettorale, e aveva disarcionato il repubblicano George Bush, pur vincitore della «guerra del golfo» contro Saddam Hussein. La disoccupazione è in costante calo, e l";indice dello sviluppo in ascesa, anche se nessuno dei problemi strutturali è stato veramente affrontato.
Le grandi «campagne di civiltà » che Clinton aveva affidato alla moglie Hillary "; come la riforma sanitaria in un paese dove metà della popolazione è priva di assistenza "; o al ministro del Lavoro Robert Reich, sono state un fallimento, e il presidente si è defilato per non esserne coinvolto. In politica estera, materia dove Clinton era considerato poco competente, i risultati appaiono ugualmente non acquisiti; ma l";attuale presidente ha dimostrato almeno di sapersi muovere con indubbia abilità e fortuna per avviare a soluzione o bloccare le crisi più dirompenti: Medio Oriente, Israele, Palestina, Balcani, Bosnia, e sempre senza impegni militari troppo gravosi per gli Stati Uniti.
Passata l";economia in secondo piano, entrambi i candidati hanno posto al centro della campagna elettorale i «valori». Dole martella sulla decadenza morale, sulla violenza che inquina le grandi città . Ma anche Clinton, enumerando le «sette sfide» del momento, ha collocato al primo posto la famiglia, e ha ottenuto la diffusione di un microprocessore in grado, dal 1° gennaio del prossimo anno, di oscurare automaticamente i programmi televisivi «vietati ai minori».
Un";altra convergenza riguarda il «Welfare State», inaugurato da un grande presidente democratico, Franklin Delano Roosevelt, che ora entrambi i candidati si propongono di intaccare profondamente, passando le competenze da Washington ai singoli stati federali. Si fa obbligo a chi riceve i sussidi di povertà o disoccupazione ad accettare lavori utili alla comunità , pena la decadenza dagli aiuti. Ma mentre Dole tuona contro «una classe sociale aiuto-dipendente, priva di dignità e speranza», Clinton vuole mantenere, con dovuti correttivi, i due pilastri del «Welfare State» costituiti dal «Medicare» (assistenza medica agli anziani) e dal «Medicaid» (protezione sociale dei più poveri), considerando che un bambino su cinque negli Usa vive sotto la soglia della povertà , anche se il paese è globalmente fra i più ricchi del mondo.
Un aspetto non sempre edificante della campagna elettorale è la caccia agli scandali. Dole ha addirittura ingaggiato un detective privato per scoprire le magagne dei suoi avversari, all";inizio della corsa per la nomination repubblicana. Clinton è stato più che sfiorato da una sequenza di accuse dai nomi pittoreschi, che fanno riferimento a casi specifici: «Whitewater» (fallimento di una immobiliare in cui aveva investito), «Travelgate» (licenziamento in tronco di sette dipendenti della Casa Bianca), «Filegate» (fascicoli su politici repubblicani); ma, a meno di nuovi elementi, si può parlare di suoi comportamenti ambigui, non di colpe provate.
Quanto alle ricorrenti accuse che lo vogliono un vorace donnaiolo, oltre ad apparire inverosimili, si ha l";impressione che, con il loro accumulo, finiscano per stancare l";opinione pubblica e raggiungere effetti opposti a quelli che si prefiggono gli scandalisti di professione o a pagamento.
I due contendenti, più la campagna elettorale entra nel vivo, più tendono a rassomigliarsi anziché a differenziarsi. A Dole si rimprovera di essere troppo pragmatico, di non avere «una sua visione», ma Clinton la «visione», il progetto presentato quattro anni fa, ha finito per stemperarlo e smarrirlo nella pratica di governo. Entrambi si rivolgono alla middle class statunitense che occupa il centro dello schieramento, evitando ogni forma di estremismo (Clinton sulla sua sinistra, Dole sulla destra). Entrambi promettono meno burocrazia, meno stato centrale, più iniziativa privata e più autonomia ai corpi intermedi.
Allora è inutile scegliere fra i due? Non proprio. I repubblicani rimangono legati a una visione della società più autoritaria, più d";élite, i democratici a una visione più popolare e più interventista in politica estera. Talvolta si tratta solo di differenze di accenti, di atteggiamenti, ma anche questo conta in democrazia. Partito molto sfavorito nei sondaggi, Dole sta recuperando posizione su posizione e si avvicina a Clinton. Se l";inizio di questa campagna elettorale si è presentato normale, il finale si preannuncia pieno di suspence.