Una casa italiana nella Grande mela

Fondata negli anni Ottanta in seno alla New York University, la struttura è attualmente diretta dal professor Stefano Albertini. Una vetrina della nostra cultura, al passo con i tempi e senza stereotipi.
23 Giugno 2009 | di

New York
Si chiama Stefano Albertini ed è l’attuale direttore della Casa italiana Zerilli Marimò. Un luogo dedicato alla cultura italiana e italoamericana, istituito presso la New York University. Lo incontriamo nel suo studio, al primo piano della palazzina che ospita la Casa. Uno studio segnato in ogni suo angolo da un’italianità culturale, artistica e… anche alimentare. La macchina del caffè espresso fa bella mostra di sé in un angolo.
Lui è nato a Bozzolo, il paese reso noto da don Primo Mazzolari – personaggio di spicco del cattolicesimo italiano – che ne fu parroco per ventisette anni. Proprio con la figura di questo sacerdote inizia la storia intellettuale del professor Albertini. La sua tesi di laurea all’Università di Parma, sarà infatti intitolata Don Primo Mazzolari e il Fascismo. Una volta conseguita la laurea a Parma, il professor Albertini si sradica dalla realtà locale, alla quale è ancora legatissimo, e si reca a studiare negli Stati Uniti. Pensava, come tanti, che ci sarebbe rimasto soltanto qualche mese, per perfezionare l’inglese. Era il 1990. Da allora non è più tornato.
Dopo il master all’Università della Virginia e il dottorato presso la Stanford University, in California, approda a New York. Dapprima come insegnante, nel dipartimento di Italiano, successivamente, nel 1994, come vicedirettore della Casa italiana. Quattro anni dopo ne diventa direttore. Il lavoro del professor Albertini è, sostanzialmente, diviso in tre parti: da un lato i corsi di letteratura e cinema, tenuti presso il dipartimento di Italiano; quindi la Casa italiana, che dirige fattivamente, occupandosi della programmazione e organizzazione degli eventi, dei rapporti con la comunità extra accademica e di quelli, anche istituzionali, con l’Italia; infine, la direzione del programma estivo della New York University a Firenze, dove ogni estate porta una decina di colleghi e settanta studenti.
Pascale. Qual è la missione culturale della Casa italiana Zerilli Marimò?
Albertini
. La Casa nasce da un’idea molto forte della sua fondatrice la baronessa Zerilli Marimò, che alla fine degli anni Ottanta ha deciso di ricordare così il marito, imprenditore molto famoso, diplomatico e umanista. Un uomo straordinario, a detta di tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerlo. Peraltro, all’interno della New York University, esisteva già una tradizione relativa alle Case nazionali, che comprendeva quella francese, tedesca e irlandese. Mancava la Casa italiana. Dunque, la nostra benefattrice ha pensato di farla nascere. Due i motivi fondamentali. Intanto, l’esigenza di conferire una maggiore libertà al dipartimento di italiano, affinché diventasse indipendente da quello di francese, cui era prima collegato. E qui va detto che l’idea è stata vincente, perché nel 2007 proprio questo dipartimento è stato dichiarato il migliore degli Stati Uniti, niente meno che dalla «Chronicle of Higher Education», una delle riviste di settore più autorevoli.
In secondo luogo, l’idea della baronessa era quella di creare un centro per la promozione della cultura italiana e per il dialogo tra essa e la cultura americana. Per questo cerchiamo il più possibile di presentare una visione globale della cultura italiana, nel suo divenire storico e nella sua contemporaneità.
Che tipo di frequentatori abituali avete?
I nostri visitatori si dividono in maniera abbastanza netta, a seconda degli eventi che proponiamo. Ad esempio, quando organizziamo iniziative che riguardano la politica italiana, la presenza è quasi esclusivamente di italiani di recente immigrazione: professori, studenti universitari e uomini d’affari che si trovano a New York da poco tempo. Quando si propongono iniziative relative al cinema, abbiamo, invece, soprattutto studenti, molti dei quali americani. Ogni tipologia di eventi incontra un pubblico diverso.
Qual è l’immagine dell’Italia che il pubblico americano si è formato attraverso il lavoro della Casa?
Devo dire che la tendenza che riscontro negli americani è di grande interesse. Negli ultimi dieci anni ho notato che c’è stata una comprensione della diversità e della complessità dell’esperienza culturale italiana. Abbiamo contribuito a dare l’idea di un Paese complesso, con delle differenze, delle minoranze e delle culture che non si conformano necessariamente a quella ufficiale. Credo che questa percezione del sistema Italia sia il dato nuovo.
C’è un evento culturale che vorrebbe realizzare?
Il mio sogno sarebbe quello di organizzare una serie di letture dantesche con la presenza dell’attore Roberto Benigni.
Come sta cambiando, sotto il profilo culturale e anagrafico, la comunità italiana di New York?
La comunità italiana è in costante mutamento. Notiamo che la presenza di italiani di recente arrivo è notevole. E forse non si tratta di vera e propria emigrazione: sono italiani mobili. Soprattutto italiani giovani, che passano un periodo di tempo qui, per poi andare a stabilirsi in un Paese europeo, o in America Latina. Questo elemento di mobilità, mi porta a dire che non esiste più una stanzialità dell’emigrazione. E si tratta di un dato empirico. Questa situazione ha cambiato totalmente il concetto di emigrazione.
C’è, in ogni caso, un interesse per le cose italiane da parte degli italoamericani. Anche di quelli che avevano perso un legame di tipo linguistico e culturale con l’Italia. Parlo dei nipoti e pronipoti dei primi emigrati, che spesso mi ritrovo in classe. Si tratta di una tendenza che continua da anni.
Come mai la filantropia tra italiani e italoamericani è poco diffusa?
Io credo che sia un problema di educazione alla filantropia. Bisogna insegnare a essere generosi. Questo vuol dire che si deve insegnare a compiere delle scelte filantropiche che abbiano un senso e che, soprattutto, abbiano un’incidenza sul futuro della città e della comunità. Negli italoamericani non c’è una tradizione di filantropia culturale. Si tende per lo più a finanziare chiese e ospedali. Quello che io cerco di far capire è che esiste uno specifico nella filantropia culturale italoamericana, che può attuare soltanto quella comunità. E se non lo fanno loro, nessun altro lo farà. Il problema della percezione degli italoamericani, che spesso, e a ragione, si lamentano per la rappresentazione stereotipata fornita di loro dai media, non si combatte con crociate contro gli spettacoli televisivi. Semmai si combatte educando le giovani generazioni a capire la complessità dell’esperienza italoamericana. Questo lo possono fare solo le istituzioni italoamericane.
Quanto a noi, siamo, come detto, beneficiari del fondo lasciatoci dalla nostra benefattrice. E, recentemente, abbiamo ricevuto anche una donazione di mezzo milione di dollari, da parte di un club italoamericano di tiro a segno, per l’istituzione di una cattedra a contratto di studi italoamericani.
Cosa può insegnare la lunga esperienza migratoria degli Stati Uniti all’Italia di oggi?
È necessario un cambio totale di prospettiva culturale nel valutare l’esperienza migratoria. L’emigrato va considerato una ricchezza e non un pericolo o una minaccia. Devo dire che questa è una questione fondamentale, sulla quale le forze politiche e culturali italiane non stanno dando il meglio di sé. Solo poche di esse, tra cui la Chiesa Cattolica, la Caritas e Migrantes, hanno offerto aperture verso l’emigrazione in Italia. L’America è un Paese che accoglie tanti emigranti. È generosa verso di loro, ma stabilisce regole precise. L’Italia non potrà fare a meno degli emigranti. E ne beneficerà, proprio come è accaduto negli Stati Uniti.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017