360 gradi editoriali
Politica di Francesco Jori
Parte la nave del federalismo
Ci aveva provato per primo Marco Minghetti, già all’indomani dell’unità d’Italia: dare al Paese un assetto federalista. Non ci riuscì, perché prevalse il modello centralista di Cavour: magari più rispondente a quell’Italia, non certo all’attuale, prigioniera di uno Stato iper-centralista, diventato un impasto di inefficienza e arroganza. Nell’aprile scorso, quasi centocinquant’anni dopo, il Parlamento ha varato il federalismo fiscale, coronando un sogno inseguito per oltre vent’anni dalla Lega di Bossi. Ma, prima di brindare, sarà meglio aspettare la pratica. Perché il provvedimento vada a regime ci vorranno altri sette anni: dalla commissione paritetica, che si insedia a giugno di quest’anno, al maggio 2016, in cui scadrà il periodo transitorio previsto per il passaggio dal criterio della spesa storica a quello dei costi standard. Tradotto: fin qui gli enti locali ricevevano dallo Stato tanti soldi quanti erano abituati a spenderne, il che premiava le amministrazioni allegre e castigava quelle virtuose; con il nuovo regime, saranno stabiliti dei costi equi per i vari servizi erogati, e chi non li rispetterà verrà punito con misure che andranno fino alla rimozione degli amministratori dalle mani bucate.
Sembra ideale, ma lo è fino a un certo punto. Oggi gli squilibri territoriali in Italia sono pesanti: in 14 Regioni su 20 la spesa pubblica supera di gran lunga l’ammontare delle risorse tributarie (le tasse) prodotte sul territorio. Ciò significa che i cittadini di 6 Regioni «mantengono», con il loro lavoro, quelli delle altre 14. In più, il nostro Paese ha un rosso di bilancio pubblico terrificante, uno dei più alti al mondo, il che complica di molto la faccenda: è facile distribuire risorse quando ci sono, arduo quando i conti si fanno con i debiti. Ma, soprattutto, il federalismo fiscale non ha senso se non si integra con quello istituzionale, cioè con la diversa ripartizione dei poteri tra Stato centrale e autonomie locali. E rischia di produrre guasti se a governarlo c’è una classe politica e amministrativa inadeguata, brava a sperperare e cialtrona nel gestire le risorse in modo oculato. Ben prima dell’unità d’Italia, uno dei massimi maestri del federalismo, Carlo Cattaneo, avvertiva che esso non è solo un meccanismo istituzionale, ma anche e soprattutto uno strumento per la garanzia delle libertà civili e politiche. Un insegnamento nel quale, a quasi due secoli di distanza, non c’è una virgola da cambiare.
Esteri di Carmen Lasorella
L’utilità dei pirati somali
Nell’esotismo di una visione onirica, la Somalia era la favolosa costa del Benadir; oggi è diventata la terra dei predoni del mare. La versione terzo millennio della pirateria somala un certo fascino lo conserva, ma è una lettura possibile solo a migliaia di chilometri di distanza. Avvicinandoci un po’, scopriamo un Paese fallito, senza governo da quasi vent’anni, una società di contadini e pastori precipitata nella guerra civile, divisa in mille clan, che si inventa popolo del mare per sbarcare il lunario. Altro tono cupo che completa l’affresco è la lunga mano del terrorismo di matrice alquaedista, che proprio in Somalia troverebbe una succursale strategica per il disegno perverso di Bin Laden. Un grande ritorno, in chiave romantica, per un Paese dimenticato. Di fatto, la Somalia è diventata un Paese post moderno, senza Stato, con un parlamento che si riunisce altrove, con interessi in mano di pochi mentre alla popolazione è negato il diritto al futuro.
I pirati, jin in lingua araba, burcad baded in quella somala, sono un utile problema, anzi una risorsa. E non per i somali, che raccolgono le briciole. Nel bacino del golfo di Aden, 600 miglia quadrate, rotta obbligata per e dal Mediterraneo, si incrociano gli interessi dell’Est e dell’Ovest. Interessi di chi trasporta merci legali o illecite, interessi che riguardano armatori, assicurazioni, trafficanti e che muovono le politiche, tanto occidentali quanto arabe e africane. Il Kenya, ad esempio, destabilizzato dopo le ultime discutibili elezioni, punta a erodere l’integrità territoriale e il potenziale economico somalo. Eritrea ed Etiopia, con prospettive contrapposte, sfruttano gli approdi esentasse utili al traffico di armi, generi alimentari e strumentali, oltre a essere implicate direttamente nelle guerre di potere in terra somala. I sauditi da anni fanno altrettanto, soprattutto a proposito del potere. Lo Yemen, che sta dirimpetto, al traffico delle merci aggiunge quello degli uomini, la tragedia ignorata di decine di migliaia di profughi somali con le loro quotidiane carrette del mare. Poi ci sono gli emiratini, con la piazza franca di Dubai e perfino i kwaitiani, consumati mediatori di ogni business. E l’Occidente, che ha lasciato arrivare la situazione alla cancrena? Di fronte alla costa dei pirati, soprattutto quella del Puntland, staterello che si è proclamato indipendente dieci anni fa, incrocia oggi una flotta da guerra senza paragoni: sono navi Usa, Nato, russe, con unità aggiunte perfino cinesi, turche e indiane. Non ci vorrebbe molto a schiacciare i barchini dei pirati e le loro basi, marcate sulla carta geografica dalle segnalazioni dei satelliti. Ma si attende. Intervenire in un Paese, come ha dimostrato l’operazione Enduring freedom, significa anche doversene poi assumere la responsabilità. In una Somalia tornata sotto i riflettori la situazione è tuttavia troppo intricata, torbida, forse perduta. Se non esagerano, possono bastare i bucanieri.
Economia di Leonardo Becchetti
Evasione fiscale e giustizia contributiva
Agli inizi di aprile siamo stati informati che il reddito medio degli italiani, calcolato sulle dichiarazioni del 2007 relative all’anno precedente, era di 18.234 euro. Poco più di un terzo dei contribuenti dichiara meno di 10 mila euro, metà delle società è in rosso e denuncia un reddito negativo, mentre il 78 per cento dei contribuenti è rappresentato da lavoratori dipendenti e pensionati. Queste cifre si comprendono ricordando che la quota di economia sommersa nel Paese è tra il 10 e il 15 per cento nel Centro Nord e superiore al 20 per cento nel Sud e nelle Isole. L’evasione fiscale è stimata attorno ai 300 miliardi di euro (10 Finanziarie robuste). Soltanto poco più del 10 per cento è attribuibile alla criminalità organizzata. L’evasione fa sì che la pressione fiscale «apparente» – ovvero quella ufficiale, attorno al 40 per cento – sia in realtà inferiore a quella effettiva (circa 50 per cento), perché l’onere contributivo è sostenuto da un gruppo ristretto di contribuenti.
Alcune considerazioni. Ci lamentiamo spesso della qualità dei servizi pubblici ma, guardando alla vastità del fenomeno dell’evasione, abbiamo forse i servizi che ci meritiamo, commisurati a quello che paghiamo per finanziarli. Sebbene non sia vero che l’evasione non riguarda anche i dipendenti pubblici (possono avere un secondo lavoro non dichiarato), è evidente che gran parte dell’onere fiscale è sulle loro spalle. Sembra esistere una specie di accordo implicito di non belligeranza, per il quale il differenziale di rischio tra attività privata e impiego pubblico viene compensato dalla tolleranza dell’evasione. L’ingiustizia contributiva risulta particolarmente odiosa se a queste due categorie (il pubblico e il privato, che si gioca la propria sopravvivenza su mercati competitivi) aggiungiamo le professioni che godono di rendite di posizione al riparo dalla concorrenza. Eppure evadono.
Sino a oggi nessun governo è riuscito ad affrontare seriamente il problema e provvedimenti di contrasto si sono alternati a iniziative che di certo non hanno favorito la lotta all’evasione. La via da percorrere dovrebbe essere quella di vincolarsi a una strategia credibile, praticabile ed efficace. Annunciando l’avvio di una forte azione di contrasto i cui frutti in termini di extra gettito vengano utilizzati per abbassare la pressione fiscale complessiva. Si tratterebbe di un passo deciso verso quel «pagare meno, pagare tutti» che rappresenta la sintesi più efficace di un possibile recupero di giustizia contributiva.