Abbà, papà mio
Quando pregate dite: «Padre». Perché il segreto della nostra vita è «oltre noi». Nessuno è padre di se stesso. Dici: «Padre», e ti apri a un «al di là» che annunci come il segreto del tuo vivere; senti che nella tua vita sono in gioco forze più grandi di te, che l’onda di un mare invisibile viene a battere sulle sponde della vita quotidiana. Dici: «nostro». E affermi che unica è la fonte gioiosa della materia, che tutti siamo scintille del grande braciere della vita. Pregare così è sentire nascere in cuore il canto della comune sorgente segreta. Tutte le preghiere di Gesù che i Vangeli ci hanno tramandato iniziano con la parola «Padre», che ricorre oltre 140 volte sulla sua bocca, come una delle sue caratteristiche inconfondibili. Perché inconfondibile? Se quasi tutti, sumèri, egizi, greci, latini attribuiscono ai maggiori dei loro il titolo di Padre, se questa parola raccoglie il senso della precarietà e della dipendenza di ogni creatura sotto il sole, se anche gli ebrei si rivolgono al Signore chiamandolo Padre, perché mai è caratteristica di Gesù? Solo il Corano non applica mai a Dio il nome di Padre: i credenti islamici sono i devoti, gli obbedienti, gli esecutori, ma non i figli.
I vangeli però riferiscono che Gesù pregava impiegando un’espressione particolare: Abbà. Abbà è un termine aramaico, la lingua corrente parlata dal popolo, il nome con cui i bambini in casa chiamano il papà, mentre fuori casa o in pubblico il figlio che incontra il genitore lo chiama «signore». È la parola più confidenziale, più affettuosa, più familiare. In sinagoga, nelle solenni liturgie in ebraico, Dio è chiamato «Abinu, Padre nostro», o più semplicemente «Abi, Padre mio». Gesù nel colloquio con Dio usa il linguaggio dei bambini non quello dei rabbini, sceglie la lingua di casa non quella della sinagoga, preferisce il dialetto del cuore e del popolo.
Accade qualcosa che Dante nell’ultimo Canto del Paradiso esprime così: «Ormai sarà più corta mia favella... che d’infante che bagni ancor la lingua alla mammella». Alla fine del lungo cammino spirituale, giunto davanti a Dio, l’unica parola che rimane è quella del bambino che non sa ancora parlare o del mistico che non parla più, un silenzio che è amore senza parole, come lo è il balbettare del poppante attaccato al seno, appagato di pienezza. Il bambino e il mistico ripetono come un balbettìo infinito una sola sillaba ab-bà, ab-bà. Che tradotta in italiano diventa «papà, babbo», anche qui un raddoppio tenero, balbettìo di un’unica sillaba. Diventare come bambini che hanno «intelletto d’amore» (Dante), che capiscono le persone attraverso il linguaggio dell’affetto. L’amore è la prima intelligenza del bambino, ha in dono gli occhi più profondi e penetranti.
Gesù conosce e usa altri nomi di Dio: Signore, Re, Giudice, Padrone, Vignaiolo, Pastore, Seminatore, ma tutti sono sotto il grande arcobaleno della bontà e della tenerezza di Dio come abbà-papà; tutti sono aggettivi di Dio, Abbà è il suo nome proprio. Nome in cui si sommano verità e tenerezza. «Sono disposto a rispettare la verità, purché si sposi con la tenerezza» (Ezra Pound). La verità da sola può essere anche un’insopportabile violenza, crea le guerre sante e le inquisizioni. «La mia verità contro la tua verità», e nascono conflitti e odi legittimati. Per contro la tenerezza da sola è sterile, emozione occasionale, fortuita, senza progetto, e forse anche narcisista. È il buonismo, bontà senza verità, dove tutto si equivale. Ma quando verità e tenerezza sono intrecciate insieme, come nella figura dell’Abbà, allora trasmettono pienezza.
Nella Bibbia i nomi di Dio diventano degli imperativi per l’uomo (G. Von Rad). E quando prego Dio dicendogli «Padre», da quella parola io sono inviato a farmi padre e madre d’altri, a custodire altre vite con la mia vita.