Abdel, quando la malattia avvicina
Abdel arriva in Italia dal Marocco vent'anni fa. Vi rimane per alcuni mesi e poi inizia a girare l'Europa, arrangiandosi con diverse occupazioni. Vive così in Francia, Olanda, Belgio, Germania, Libia. Ma nel 1990 ritorna nel nostro paese, dove decide di stabilirsi. Lavora in una fabbrica in provincia di Treviso: è un tornitore stimato e apprezzato anche dal suo datore di lavoro, Rino De Vidi. «Quando abbiamo saputo - riferisce De Vidi - che Abdel pagava oltre un milione di affitto e che tale cifra stava per subire un aumento perché la sua era una presenza non gradita, conoscendo come lavorava e sapendo che voleva portare in Italia la moglie, abbiamo comperato una casa per lui, dove potesse abitare pagando un affitto ragionevole».
Abdel lavora e segue dalla televisione le notizie del Marocco, torna a Casablanca solo per le ferie. Si sposa con Latifa e ha un bambino. Una vita, la sua, che dopo tanto girovagare, sembra aver raggiunto finalmente i traguardi agognati: un lavoro, una casa, una famiglia.
Ma a Natale del 1995 quanto ottenuto in anni di sacrifici e peregrinazioni viene distrutto dalla scoperta di essere ammalato. Abdel, non ancora quarantenne, aggredito da un tumore, si trova solo di fronte alla malattia, che gli consuma i polmoni e sgretola le ossa.
Nel giugno del 1996 le sue condizioni si sono talmente aggravate da rendere impossibile a Latifa e al cugino Abdellah l'assistenza a casa. Allora interviene l'Advar, un'associazione di Treviso che assiste gratuitamente a domicilio i malati di tumore.
La storia di Abdel la raccontano i volontari dell'Advar. La proponiamo perché, al di là dei tanti stereotipi, una volta tanto italiani e marocchini si sono trovati insieme, uguali di fronte al dolore. «Abdel - racconta Ugo Agnoli, un volontario che assieme a Lina, Paola e Romeo, infermiere, ha accompagnato Abdel nel suo ultimo tratto di vita - era molto intelligente e riservato. Sapeva della malattia, ma non ne parlava per salvaguardare i familiari. Non si lamentava mai. Sorrideva. Non voleva disturbare. Quando gli si chiedeva come stava, rispondeva sempre 'Bene, bene' anche se i dolori erano lancinanti».
Paola Guastella, volontaria, arriva in casa di Abdel proprio il giorno in cui suo figlio compie due anni. In casa c'è grande animazione. In soggiorno ci sono gli uomini, in cucina le donne con il velo sul capo. Lei entra e si siede tranquillamente tra due uomini, suscitando imbarazzo e silenzio generale. Allora capisce e, abbandonato il gruppo maschile, raggiunge le donne in cucina. A parte questo «incidente», che racconta per sottolineare l'evidente diversità delle culture, Paola dice che in quella casa è rimasta colpita dalla dignità della famiglia che accettava l'aiuto di persone estranee, ma senza approfittarne. «Se avevo dei dubbi sulla possibilità di comunicare con un extracomunitario - dice Paola - in quella casa sono svaniti tutti».
«Latifa diceva sempre - racconta Lina Andreatta - che non avrebbe mai immaginato di trovare un'associazione come l'Advar». «Dopo aver saputo dell'assistenza dell'associazione - afferma Ugo - i genitori di Abdel hanno detto: 'Ma allora in Italia non sono mica tutti delinquenti!'. Hanno fatto, cioè, lo stesso ragionamento che noi facciamo per i marocchini. Trovare un marocchino onesto stupisce gli italiani quanto sorprende i marocchini incontrare un italiano che si occupi gratuitamente di loro. Questa sembra essere la morale della storia».
Le giornate in casa di Abdel malato passano lente. Con il ritmo «diverso» di chi sa di avere i giorni contati. Medici e infermieri si avvicendano, ma le sue condizioni nel luglio scorso si aggravano. Abdel desiderava vivere per sempre nel nostro paese. Si era innamorato dell'Italia. Se avesse vinto al lotto - diceva - si sarebbe fatto una casa qui; ma, dopo averci pensato a lungo, decide di ritornare a Casablanca. Parte per rivedere i genitori, gli otto fratelli e la moschea di Casablanca che si affaccia sul mare. Ci va come per una vacanza, chiede un biglietto aereo di andata e ritorno, ma sa che potrebbe non tornare più. «Tornare in Marocco significava per lui accettare la malattia - dice Anna Mancini Rizzotti, presidente dell'Advar - . Non voleva ritornare in quelle condizioni e aveva paura di non essere curato come lo era qui».
I volontari dell'Advar e della Croce Rossa, il 21 luglio accompagnano Abdel all'aeroporto di Milano. «Quando sono venuti a prenderlo per condurlo sull'aereo - racconta Anna Rizzotti - ha detto: 'Dico arriverci ugualmente'».
Negli ultimi giorni di malattia Abdel si era riavvicinato alla religione musulmana. Aveva chiesto di insegnargli a pregare al cugino Abdellah, che lavorava a Napoli, ma saputo della malattia, aveva lasciato tutto per venirgli in aiuto. Abdel aveva voluto il Corano e teneva vicino a sé un sasso per puricarsi, non potendo alzarsi per lavarsi, come fanno i musulmani, prima delle preghiere.
«Quando aspettavamo l'aereo a Linate - aggiunge il dottor Gianfranco Aretini, medico Avdar - lui mi ha chiesto scusa e si è appartato a pregare. In aereo Abdel ha pianto e ha detto: 'Dio ha dato a noi la vita, quando decide di prendersela non possiamo dire di no'. Poi ha letto il Corano».
«Un giorno abbiamo considerato insieme - dice Anna Rizzotti - che la presenza di Dio è al di sopra di noi, al di là del fatto che uno preghi in un modo o in un altro. Lui si era avvicinato al suo Dio. Noi pregavamo il nostro».
Abdel è morto in ospedale, a Casablanca, l'8 agosto 1996.