Abruzzo, solidarietà e giustizia
Venti secondi, interminabili, nel cuore della notte. Sul web la prima allerta che percorre come un fremito la Penisola, mentre ha inizio il tam tam delle agenzie di stampa: non si parla più di crisi, sulla quale ancora disputano stancamente i giornali di lunedì 6 aprile, giorno del disastro, ma di emergenza. L’Italia si risveglia dal suo torpore, mette da parte le faziosità, i litigi da cortile e si rimbocca le maniche. Si mette in movimento la macchina della Protezione civile e questa volta lo Stato c’è, non nel senso che è subito possibile fare tutto e tantomeno corrispondere alla voragine di necessità e urgenze di chi ha perso casa e affetti, ma che le cose vengono fatte al meglio, con professionalità e tempismo. L’esercito dei volontari si mette in marcia verso L’Aquila, dove c’è la prima linea, dove il terremoto ha sventrato e fatto strage, mentre chi resta nelle retrovie, a casa, aiuta come può: un sms solidale, una piccola donazione tanto per cominciare, e, perché no, una preghiera. Nella santa Messa comunitaria di lunedì sera padre Danilo, direttore generale del «Messaggero», prega per le vittime e i sopravvissuti, e aggiunge: «In Abruzzo, attraverso il “Messaggero”, siamo in contatto con moltissimi devoti, alcune migliaia; chissà quanti hanno invocato il nostro caro Santo nel pericolo…».
Passano alcuni giorni, frenetici, e il bilancio delle vittime si fa sempre più pesante, senza contare l’angoscia per lo sciame di scosse che tormenta gli sfollati nelle tende, giorno e notte, riattivando il meccanismo della paura. Gli adulti si sentono impotenti e i bambini smarriti; i primi non riescono a comunicare ai piccoli una fiducia nella vita che per ora si è spenta. Qualcosa dentro è andato in frantumi, e così rimbalzano – tra rabbia e dolore – le grandi domande: perché Dio ha permesso questo, perché i figli sono morti prima dei genitori? Nel giorno di Pasqua lo stesso vescovo de L’Aquila – monsignor Molinari – per delineare una prospettiva di speranza che non aggiri la dura realtà, dice ai suoi fedeli: «Oggi tutti siamo un po’ arrabbiati con Dio…». Ci sono però anche altre domande, quelle sulla sicurezza, rivelatasi in buona parte inesistente, degli edifici: perché non si è costruito secondo le più elementari norme antisismiche, perché tutta quella sabbia di mare a corrodere il poco cemento? Nell’emergenza dei primi giorni forse non è tempo di recriminazioni, ma evidentemente queste domande non andranno lasciate a lungo in sospeso. I morti vanno onorati con il ricordo, la preghiera, ma anche facendo giustizia. Mi ha colpito l’affermazione – solo a prima vista paradossale – di un esperto sismologo: «Gli uomini non muoiono per i terremoti, ma per le case che crollano».
Martedì 14 aprile, di mattina presto, partiamo in quattro alla volta dell’Abruzzo: io, padre Danilo e due giornaliste del «Messaggero», Sabina e Giulia. Molti lettori ci hanno telefonato in questi giorni chiedendo cosa possono fare per un’emergenza che li ha toccati e scossi. Vogliono che ci facciamo canale di solidarietà, e perciò andiamo a visitare i nostri frati che hanno conventi in quelle zone, uno proprio alla periferia dell’Aquila: chiesa di San Pio X. Qui vivono in cinque, e anch’essi terremotati stanno aiutando come possono i propri parrocchiani, con pochi mezzi e il cuore gonfio. Dopo aver sostato nelle stazioni di una interminabile via crucis, in particolare ai bordi delle rovine di Onna e nella tendopoli che raccoglie molti abitanti di questa frazione, l’ultima visita è alla chiesa dei frati. L’altare è pieno di calcinacci; c’è un foglietto della domenica delle Palme, un’ampollina rovesciata che ha arrossato la tovaglia. Dalle vetrate giallo-azzurre entra una luce calda. Padre Ciprian e padre Claudio raccontano ancora una volta di quella notte, ora con più calma. Nell’aria c’è speranza.