Accerchiati dai sondaggi
Scettici o troppo fiduciosi
Se uno dei passaggi che abbiamo descritto salta o è inquinato, traballa l’autorevolezza dell’intera ricerca, che ovviamente deve tener conto anche della sincerità degli intervistati, a maggior ragione su alcuni temi delicati – come ad esempio le intenzioni di voto – quando si è più restii a esporsi, per quanto venga garantito l’anonimato. In queste situazioni si tende a rispondere non tanto in base a ciò che si pensa, ma in ragione di come si vuole apparire. «Tenuto conto di tutte queste difficoltà, i sondaggi si rivelano molto più precisi di quanto sarebbe lecito attendersi», sostiene Nando Pagnoncelli, amministratore delegato di Ipsos Italia, nelle librerie con il recente Le opinioni degli italiani non sono un’opinione, per l’editrice La Scuola. «Tuttavia – spiega Pagnoncelli – è comprensibile la sfiducia degli italiani nei sondaggi. Infatti la pratica di far prevalere l’intento strumentale non può che portare discredito al mezzo in sé, come quando su medesimi argomenti ricerche diverse offrono esiti molto divergenti, venendo sfruttati per sostenere tesi opposte».
Ma lo scetticismo non è l’unico modo per interpretare male i risultati di un sondaggio. Anche chi li reputa verità assoluta e inconfutabile è in errore. Considerare i dati finali di una ricerca eloquenti di per sé o oggettivi per natura propria è una semplificazione: fa apparire realtà quello che è solo uno strumento di lettura della realtà. Ma è proprio questa «infatuazione» per i numeri che viene sfruttata da chi manipola i sondaggi. Il numero fa notizia, sembra incontrovertibile, inattaccabile, inamovibile. Del resto, se non si fosse convinti dell’intrinseca autorevolezza delle ricerche demoscopiche, non se ne farebbe un uso – e nemmeno un abuso – così ampio. La crescita esponenziale del numero dei sondaggi è verificabile anche solo osservando la loro diffusione sui media: nel 1995 sui giornali e tv italiani hanno trovato spazio i risultati di 360 ricerche, quasi una al giorno; nel 2003 eravamo arrivati a quota 1.047; l’anno scorso, il 2008, la stampa di casa nostra ha pubblicato oltre 1.800 sondaggi, con una media di cinque al giorno. Insomma, un’inondazione tale che ha indotto a parlare di «sondocrazia»: siamo forse una democrazia fondata sui sondaggi? Se anche così fosse, non si può ritenere di per sé negativo il coinvolgimento diretto del cittadino, cui viene chiesto di dire la sua sulla questione del momento. Ma c’è anche il rovescio della medaglia: «sondocrazia» è sinonimo di falsa democrazia, quando l’opinione dà l’avallo o blocca qualsiasi mossa governativa, o quando determinati risultati, ben indirizzati, servono da persuasore occulto per incanalare il consenso, con la grancassa dei media. Di questi meccanismi parla in Attenti al sondaggio!, edito da Laterza, Paolo Natale, professore associato di Metodologia della ricerca e analisi dei sondaggi alla facoltà di Scienze politiche dell’Università di Milano.
«I sondaggi – spiega il docente – ci raccontano come siamo, senza che noi possiamo fare nulla per contraddire questa “nostra” opinione. Poco alla volta, “descritti” dai sondaggi su qualsiasi argomento possibile, gli italiani cominciano a pensare e a pensarsi in maniera simile a quanto viene loro raccontato: si adeguano».
È l’effetto che gli studiosi chiamano di band wagon, ovvero il salto sul carro del vincitore da parte degli incerti.
L’intreccio di marketing e politica
Anche Nando Pagnoncelli attribuisce al Cavaliere di Arcore l’attuazione di una svolta nell’uso politico dello strumento demoscopico. Nel suo libro racconta, da studioso, la «guerra dei sondaggi» delle elezioni 2006, quando Berlusconi riuscì a raggiungere una quasi parità con lo schieramento di Prodi, accusando di parzialità gli istituti di ricerca italiani (che davano il Pdl nettamente soccombente) e presentando altri dati a lui più favorevoli, frutto di una ricerca della società americana «Psb Associates». «L’esito elettorale – sostiene Pagnoncelli – sembra dare ragione al sondaggio Psb; in realtà, dati i limiti metodologici che presentava, si è trattato unicamente di una sorta di “profezia che si autoavvera”». Ma la tendenza a usare in modo strumentale il sondaggio non ha colore politico, come spiega ancora l’amministratore delegato di Ipsos Italia: «Mi riferisco alla polemica di quest’estate sulle primarie del Pd, quando una nostra ricerca è stata messa a confronto con una simile ma non equiparabile realizzata dall’istituto Ipr, secondo il malcostume in voga nel nostro Paese di utilizzare le rilevazioni demoscopiche per influenzare gli elettori».
Già nel 1995, per evitare questa e altri tipi di derive, Ordine dei giornalisti e Assirm (l’associazione dei maggiori istituti italiani di ricerche di mercato, sondaggi di opinione e ricerca sociale) hanno firmato un accordo per la corretta pubblicazione dei sondaggi. «Mi sembra un protocollo piuttosto disatteso – afferma Paolo Natale –. Ogni ricerca pubblicata andrebbe accompagnata da una scheda metodologica: ciò accade nella maggior parte dei casi, ma ho presente episodi anche recenti in cui non è successo». I media sono quindi sotto accusa per una certa superficialità, la stessa, del resto, che si riscontra anche nel processo di formazione dell’opinione. Cosa ci spinge a pensarla in un modo piuttosto che in un altro? «È la percezione – spiega Pagnoncelli – che guida le opinioni, i giudizi, i comportamenti. La razionalità, i riscontri empirici, non modificano la percezione, che quindi è sempre più scollegata dalla realtà. Ciò dipende da due fattori, cioè la complessità dei fenomeni, e la loro mediatizzazione. Le informazioni passano principalmente mediante la televisione, che non offre margini di approfondimento: il servizio di un tg dura poche decine di secondi, punta sulle immagini, ed esaurisce in sé la notizia. Per pigrizia, per mancanza di mezzi culturali, di tempo o di voglia, tendiamo ad affidarci all’esperto o a chi riteniamo di poter dare fiducia. Così l’elemento oggettivo, che dovrebbe dirimere le questioni, sembra non avere più alcun valore». Questa analisi non lascia spazio a molti sbocchi positivi: sembra di essere a un punto di non ritorno nell’uso dei sondaggi, che perdono sempre più il loro status di misuratori della realtà. «Non ho molta fiducia per il futuro – commenta Pagnoncelli –. Credo si possa uscire da questa deriva solo con un patto tra i tre attori principali, cioè sondaggisti, media e politici, che non possono solo rincorrere il consenso attraverso i sondaggi, rinunciando al proprio ruolo di progettare il futuro. Il sondaggio deve misurare il consenso, non essere usato per ottenerlo. Altrimenti cadremo nella sondocrazia, o dittatura della maggioranza. Ma avere la maggioranza non significa avere ragione, essere nel giusto, prendere la decisione più utile, saggia o produttiva. Il più antico referendum di cui ci è giunta notizia mise a confronto Gesù e Barabba: sappiamo quale fu l’esito».
Zoom. Come verificare l’attendibilità di un sondaggio?
Ogni giorno in Italia vengono pubblicati in media cinque sondaggi. Impossibile tenere il conto di tutti, forse nemmeno opportuno. Ma se i risultati di una determinata ricerca ci toccano più da vicino – per interesse sociale, lavorativo, o anche solo personale – come verificarne l’attendibilità?
Ecco alcune domande che possono aiutare a inquadrare la questione.
– Chi ha realizzato il sondaggio? Risultati forniti senza indicare quale ne sia la fonte, non meritano fiducia.
– Chi ha pagato il sondaggio? Il costo di una ricerca è impegnativo: sapere chi ha commissionato il lavoro significa capire chi è interessato a conoscere e a far conoscere certi dati.
– Quali sono state le domande formulate?
– Come è stato determinato il campione di riferimento?
– Quando sono state fatte le interviste? Sono accaduti in quei giorni fatti tali da condizionare le risposte?
Si prenda il caso in cui viene compiuto un crimine efferato di rilevanza nazionale. Se a ridosso si realizza un sondaggio riguardante la pena di morte, non si potrà non tener conto che le risposte sono date sull’onda dell’emotività.
– Le domande sono chiare e inequivocabili, o danno già un’interpretazione preconcetta?
Ecco un esempio, riportato da Paolo Natale nel già citato Attenti al sondaggio! A fine 2008, durante la vicenda di Eluana Englaro, due istituti di ricerca realizzarono sondaggi su quale fosse l’opinione degli italiani in merito. Il primo chiedeva: «Lei personalmente è favorevole o contrario alla sospensione dell’alimentazione forzata per Eluana?» (risposta: 61 per cento favorevole alla sospensione). Il secondo istituto, invece, formulava così il quesito: «Cosa sarebbe più giusto fare nel caso di Eluana? Interrompere la nutrizione o mantenere la nutrizione?» (risposta: 47 per cento contro, 47 per cento pro, il resto non risponde).
Le due domande sembrano identiche, ma inserire il termine «forzata» allude espressamente a qualcosa di innaturale, una scelta che infatti ha inciso sui risultati.
– Quale potrebbe essere lo scopo del sondaggio? Chi userà i suoi risultati e a che fine?
– Si conoscono tutti i risultati, o si è voluto presentarne solo una parte?
– Ci sono altri sondaggi sullo stessa tema? Quali risultati hanno ottenuto? I dati comparativi sono sempre più eloquenti, specie in alcune ricerche. Affermare che, secondo i dati Istat, il 15 per cento della popolazione attiva percepisce uno stipendio sotto il minimo interprofessionale può non essere granché significativo. Lo diventa se i dati degli anni precedenti sono stati del 5, 6 e 4 per cento.