Addio, guru dell’amore
Se n'è andato in silenzio, a 74 anni, senza clamori. Da qualche tempo si era «ritirato» a Zephyr Cove, vicino al Lago Tahoe, tra le montagne del Nevada. Lui che per anni aveva girato il mondo con un unico scopo: predicare l'amore vicendevole, inteso come capacità di donarsi agli altri, condividendone i sentimenti.
Nato in una poverissima famiglia, originaria di Caluso in provincia di Torino, ma emigrata in California all'inizio del secolo, Buscaglia tornava di quando in quando in Italia a far visita ai parenti, e ogniqualvolta lo portava il cuore.
Il suo secondo nome - Felice - era già una promessa. Divenuto professore di pedagogia alla University of Southern California di Los Angeles, amava definirsi un «educatore» più che un «professore». E la sua capacità di trasmettere emozioni lo aveva portato alla ribalta radiofonica e televisiva nel suo Paese.
Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, con il suo calore e i suoi proverbiali abbracci all'italiana, insegnò a un'America un po' irreggimentata e introversa che l'amore è la chiave di volta con cui aprire il cuore di ogni persona.
La sua fama travalicò le frontiere, e i suoi libri, stampati in undici milioni di copie, vennero tradotti in venti lingue. Diede anche vita alla «Felice Foundation» con lo scopo di incoraggiare e insegnare lo «spirito del dare».
Negli ultimi tempi la sua attività editoriale si era ridotta: «Quella dello scrittore - diceva - è una professione molto solitaria. Hai solo te stesso e nessun altro può farlo per te. Quindi, in un certo senso, significa che ci stiamo allontanando dalla vita per andare in un'altra dimensione». Così leggeva molto, si dedicava alle passeggiate in montagna (da buon piemontese), cucinava e stava con gli amici.
Proprio recentemente lo avevamo sentito al telefono, per scoprire la sua «italianità ». Vi proponiamo l'ultima intervista.
Msa. Perché la sua famiglia emigrò negli Stati Uniti?
Buscaglia. Partirono a causa della povertà . Le cose erano molto difficili a quei tempi. Mia madre lavorava come domestica, mio padre lavorava in fabbrica, ma il salario era molto basso, e come molte altre persone si illudevano che in America le strade fossero lastricate d'oro. Allora pensarono che sarebbe stata un'opportunità quella di crescere i loro figli in una terra migliore. Così emigrarono. Prima partì mio padre e, dopo che ebbe trovato un lavoro e si fu sistemato, mia madre lo seguì con il suo primo figlio, mio fratello più vecchio.
Ma l'America non era lastricata d'oro e capirono che qui c'erano molte persone che stavano cercando la propria fortuna mentre loro erano solo due fra i tanti. Mio padre dovette lavorare moltissimo come cameriere nei ristoranti; mia madre faceva il bucato per gli altri. Nel duro lavoro quotidiano scoprirono che c'era un modo per migliorarsi. E ben presto mio padre divenne il proprietario del ristorante.
Che cosa ricorda di quell'epoca, quando la gente insultava gli italiani chiamandoli con gli appellativi «wops» (senza documenti) e «dagoes» (coltelli facili)?
A quei tempi la mafia americana lasciava il segno a New York, a Chicago, ecc. e la gente generalizzava come è solita fare, dicendo che tutti gli italiani erano mafiosi. Ritenevano tutti gli italiani inferiori perché a quei tempi gli italiani facevano lavori umili. Alcune persone a scuola mi chiamavano «wop» oppure «dagoe», che erano termini molto offensivi, ma come ho scritto nel mio libro Papa, my father, mio padre mi spiegò che le persone che avevano dei pregiudizi chiamavano gli altri con nomi offensivi a causa della loro ignoranza, e se ci avessero conosciuti ci avrebbero voluto bene. Così mi chiese di essere comprensivo e tollerante; mi invitò a non rispondere con altri pregiudizi nei loro confronti, ma di replicare alla loro rabbia e ai loro pregiudizi con l'accettazione e la comprensione. Era molto difficile per un giovane, ma non era impossibile, e io imparai a gestire la situazione.
Ha avuto difficoltà ad adattarsi alla società americana?
Sono nato qui, negli Stati Uniti, quindi non ci sono stati problemi per me. Il problema nasceva dal fatto che mio padre e mia madre, pur vivendo negli Stati Uniti per molti anni, sono sempre rimasti italiani: cucinavano in modo diverso dai vicini del quartiere, si comportavano in modo diverso, avevano una fede diversa. Io mi sono dovuto adattare a due culture: quella di casa mia, dove si parlava l'italiano, e l'altra, fuori di casa, dove c'era il mondo dell'emigrato italoamericano.
Suo padre Tullio, dopo cena, non vi lasciava mai andare a letto senza prima chiedervi che cosa avevate imparato quel giorno. Ha in qualche modo mantenuto questa abitudine nella sua vita?
Sì. Raramente vado a letto la sera senza chiedermi che cosa ho imparato di nuovo quel giorno. Mio padre diceva che il più grande peccato del mondo era quello di andare a letto, la sera, «ignoranti» come quando ci si era svegliati al mattino. Quindi si rassicurava che tutti i suoi bambini imparassero qualcosa di nuovo ogni giorno, e anche se eravamo bambini ci piaceva farlo. Ora che sono adulto capisco quanto sia importante continuare a crescere.
I suoi genitori amavano molto San Francisco e spesso si recavano a North Beach perché la consideravano una sorta di piccola Italia. Pranzavano con pasta, parlavano italiano e incontravano altri connazionali. Che cosa ricorda di quel periodo della sua vita?
Ogni volta che i miei genitori ne avevano l'occasione andavano a San Francisco perché San Francisco aveva una zona italiana a quei tempi, North Beach appunto. C'erano giornali italiani, un cinema italiano, una chiesa dove si celebravano tutte le messe in italiano. Tutti parlavano italiano lì, quindi era come essere in una cittadina italiana ma nel cuore della California, e i miei genitori amavano quella sensazione. Ci portavano là e noi mangiavamo, incontravamo della gente, facevamo visita agli amici. Era come una piccola fetta d'Italia. Quei momenti li ricordo in modo molto limpido. E ogni volta che vado là vedo che sta cambiando. Gli italiani si sono spostati fuori dalla comunità lasciandola ai cinesi, ma c'è ancora il sentimento, hanno ancora le messe in italiano e vengono ancora pubblicati giornali italiani, ci sono molti ristoranti italiani. Ogni volta che ci vado mi sento come se fossi di nuovo lì con i miei genitori ed è molto malinconico per me.
C è qualcosa nella sua personalità , nel suo modo di essere che la fa sentire molto più vicino agli italiani che non ad altri gruppi etnici?
Penso di avere più legami con l'Italia che con gli altri gruppi etnici. Ho ancora un forte entusiasmo per la vita e sono molto vivace. Credo che molte delle abitudini che i miei genitori avevano, le hanno portate con sé, e ogni volta che torno in Italia vedo l'animo, la vivacità e la gioia che hanno gli italiani nella vita e nello stare insieme con la famiglia.
Lei è in contatto con la comunità italiana negli Stati Uniti?
Sì, e ho ancora molti legami con diverse organizzazioni. Infatti la Fondazione Nazionale Italoamericana mi ha anche invitato a un ricevimento presidenziale, che è stato molto eccitante e mi ha fatto onore. Le comunità italiane sono ancora molto vicine.
Dai suoi libri traspare la figura di un uomo-Buscaglia sempre ricco d'amore. Ma non c'è proprio nulla nella vita che non le dia disgusto: le ingiustizie, la violenza, l'ignoranza? Non c è nessuno che vorrebbe prendere a calci nel sedere invece di abbracciare?
È vero: sono un uomo molto felice. Negli anni mi sono occupato di fare dell'amore il centro della mia vita, così che ogni azione che io compio è emanata da un centro, da un nocciolo amoroso. Ma per questo non voglio essere riduttivo. Mi rendo perfettamente conto che esistono l'ingiustizia, la violenza, l'ignoranza, la disperazione, ecc. ma sono risoluto a non essere sopraffatto da queste cose. Faccio tutto il possibile per migliorare ogni situazione negativa esistente (attraverso i miei libri, l'insegnamento, le conferenze, le apparizioni televisive, il mio stile di vita), dato che sono determinato ad amare, malgrado tutto. Rispondere agli altri con la stessa collera e ostilità che ci possono mostrare, significa rinforzare i loro comportamenti distruttivi. Invece, ricambiare la loro ostilità con l'amore significa rompere un circolo vizioso.
Woody Allen ha detto: «Io non ho paura della morte, però quel giorno preferirei non esserci». Che cosa pensa della morte?
Credo fermamente che per fare pace con la vita si debba fare pace con la morte. E questa arriva per tutti. Infatti credo che questa sia l'esperienza più democratica della vita umana. Tutti muoiono: il povero, il felice, l'infelice, la persona famosa, quella non conosciuta. Tutti sanno che la fine sarà la morte. Per me non è una cosa paurosa ma, piuttosto, una sfida, perché sapere di non essere immortale significa che devo vivere ogni momento della vita e devo celebrare ogni momento della mia vita, perché la morte arriva inaspettata. Potrebbe essere domani, potrebbe essere fra dieci anni: arriva per i bambini come per gli adulti. Quindi la morte non mi fa paura. La considero solo una parte normale della vita. E se vivi pienamente la vita, non hai paura della morte. Credo che le persone che si lamentano di più della morte sono quelle che non hanno mai vissuto la propria vita.