Adozioni: quella sottile crudeltà

07 Gennaio 2001 | di
 
   

   

Le nuove norme in materia di adozione consentono all' adottato, dopo aver compiuto i 25 anni, di chiedere al Tribunale dei minori chi sono i veri genitori: questa possibilità  è vista dalle famiglie come una inutile, crudele libertà .

   
   
«S iamo i genitori di una  bambina di sette anni, adottata tre anni fa: una piccola famiglia unita e felice. Oggi leggiamo sul giornale che a 25 anni nostra figlia potrà  chiedere al Tribunale chi sono i suoi genitori 'veri', e a noi questo sembra più che un diritto una inutile e persino crudele libertà ... vuole dirci, signor Zavoli, la sua opinione in merito?».
A.B. - Piacenza

N on sto a pensarci su, mi viene naturale, d' acchito, essere d' accordo; lo si potrà  esprimere in modi diversi, ma il dissenso dalla norma, per me, è totale. Perché? Procediamo con ordine, cominciando da una considerazione che mi pare doverosa. Non bisogna temere, valutando le nuove norme in materia di adozione (per esempio il prolungamento di cinque anni ' da 40 a 45 ' dell' età  consentita per adottare un bambino) che una legge più adeguata ai tempi, meglio rispondente, cioè, a esigenze e a costumi assai mutati, possa nascondere il pericolo di venir meno a qualche scrupolo morale o violare, più che non accadesse prima, presupposti di sensibilità  e ragionevolezze. Il timore che l' aver protratto il limite d' età  entro cui esercitare l' adozione vada a scapito dei bambini più grandi - nell' ipotesi, peraltro non sempre infondata, che si accentui la tendenza a volere i bimbi più piccoli, svantaggiando di conseguenza quelli di età  maggiore - è in ogni caso estraneo all' animo con cui si deve affrontare una scelta di questa natura.

L' adozione di un bambinonon è, in senso stretto, un' opera assistenziale, né ha un significato sociologico e neppure, mi spingo a dire, corrisponde a un esame di coscienza: è un libero, individuale, responsabile atto d' amore verso una creatura che, in quanto tale, esige il riconoscimento di un bisogno e di un diritto fondamentale:di essere amata. Se adottare un bambino e farne un figlio è volere il bene di un altro, fino ad esserne l' epifania, non sarà  una norma a condizionare lo spirito di quella scelta. A meno che non si faccia dell' adozione un fatto solo esistenziale, di visibilità  sociale, o di mero egoismo privato, cioè non la si voglia solo per se stessi, magari usandola alla stregua di tanti sacchetti di sabbia con cui difendere un matrimonio in crisi o, peggio ancora, per sentirsi generosi, oppure facendo l' algido calcolo di chi, con quel gesto, vuole garantirsi un erede, una continuità . Non dovranno dunque sentirsi in pericolo i bambini più maturi, ma i genitori più immaturi: perché, ripeto, è l' amore a dover tutelare i primi e a ispirare i secondi.
Qualche grave riserva la dedicherei alle incongruenze ancora presenti nell' affidamento e a quelle, ripeto, che i genitori di Piacenza hanno indicato nella loro lettera: la possibilità , raggiunti i 25 anni, di conoscere il padre e la madre biologici. Nel primo caso non mi pare equa, né molto umana, la possibilità  di sottrarre un bimbo all' affido, dopo un tempo più o meno lungo, perché ormai idoneo all' adozione; nel secondo, mi sembra imprevidente e azzardato (complice il vezzo di una demagogia giuridicista a tutti i costi) lasciar aperta una facoltà  che l' istituto dell' «adozione speciale» aveva, dopo un lungo e responsabile dibattito, annullato: quella di sottoporre una creatura che si è costruita le sue certezze sentimentali e morali, psicologiche e civili, crescendo nell' amore condiviso della sua vera ed unica famiglia, a un dilemma di questa natura.
Non a caso il legislatore aveva predisposto, quando il genitore biologico fosse in vita, e si dimostrasse l' impossibilità  di fargli crescere un figlio - per un rifiuto incoercibile, o indegnità  morale, o grave impedimento fisico, psichico, economico - che esso esprimesse con il massimo di consapevolezza e responsabilità , l' atto di rinuncia; e che il bimbo adottivo avesse da subito e per sempre gli stessi, ovvii diritti di un figlio naturale: compreso quello, primario, di vivere senza altri traumi un' esistenza già  provata dall' abbandono.

 

La nuova norma cela il rischio, a mio avviso evidente, che ben prima di aver raggiunti i 25 anni (perché, poi, 25?) «si sappia di poter sapere», magari al prezzo di uno strabismo quantomeno psicologico, per dir così, che certo non gioverebbe alla serenità  di nessuno, anche se generato soltanto da una semplice, umana curiosità .
L' attesa di «sapere», o di poter sapere, che cosa produrrà  nell' animo della famiglia? I genitori non avevano compiuto il sacrosanto dovere di informare subito, non appena in grado di essere capiti, che il bimbo o la bimba erano figli adottivi? Non c' era stata una trasparenza quasi sacrale, con il suo carattere di lealtà  assoluta, mettendo il seme della condivisione nel cuore di chi vivrà  un così straordinario, e assolutamente libero, progetto d' amore? La curiosità , il desiderio, il bisogno, il diritto di volerne «sapere di più» non era già  garantito da quel patto? E non sarebbe stato rispettato proprio in virtù di una libertà  che più sicura non potrebbe essere?
All interno di questa libertà  il «sapere» non troverebbe sbocchi più naturali, meno gravati dal dubbio di valersene o no? A quali sorprese andrà  incontro un bisogno chissà  quante volte più indotto che sentito? Di quali traumi potrebbe essere la fonte? Ecco perché - d' altronde persuaso che a vincere sarà  sempre l' amore - sono con voi, cari lettori.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017