Affácciati alla finestra!
Tra i ricordi che mi porto dietro dagli anni di studio romani, ce n’è uno particolarmente «visivo». Dalla finestra della mia stanza potevo ammirare l’alto grattacielo di non mi ricordo più che azienda. Ma se di giorno lo spettacolo era tutto sommato anonimo, un enorme specchio per giganti vanitosi, al calare della sera la musica cambiava decisamente.
Una a una, le centinaia di finestre si accendevano, in ordine sparso e, ai miei occhi, del tutto casuale. Era come se finalmente l’alto edificio desse segnali di vita: lì dentro c’era qualcuno, dietro a quelle finestre stavano uomini e donne in carne e ossa. Che lavoravano, o magari facevano tante altre cose. E io, nei momenti di pausa tra un libro e una dispensa (a sera, a dire il vero, sempre più frequenti), stavo lì a domandarmi: chi sono? Che cosa fanno? Immaginavo persino che da là qualcuno stesse guardando proprio la mia di finestra illuminata. E si stesse ponendo più o meno le medesime domande.
Ma, a pensarci bene, mi viene in mente ora che probabilmente tutte le tappe e i cambiamenti della mia vita sono contrassegnati da ricordi legati a ciò che di volta in volta vedevo dalla mia finestra di turno. Dai campi della casa della mia infanzia alle fabbriche che, ahimè, mi tocca sorbirmi ora: è la presenza ingombrante ma inequivocabile della realtà alla mia vita!
Spalanchiamo le finestre, e il mondo che stava acquattato lì fuori, in attesa, ci piomba dentro in men che non si dica: odori, rumori, persone, e magari pure qualche insetto molesto. Non occorre vivere nei vicoli di Napoli per sperimentarlo: affacciáti alla finestra entriamo letteralmente in relazione con la vita che scorre lì sotto. Genericamente il più spesso, ma qualche volta persino concretamente: la mamma che richiama il figlio per i compiti, il fidanzato che strimpella l’ennesima serenata alla sua bella, i passanti che si salutano, o la curiosità per il semplice gossip da strada. Sembra proprio che molta della nostra giornata si consumi nel maneggiare le finestre, in particolar modo in questo tempo estivo. Per dosare la calura del giorno e il fresco notturno, la luce abbacinante del sole e il buio serale, il bisogno di sentirsi vivi e perciò circondati da rumori, e quello di starsene un po’ con se stessi in silenzio: è tutto un abbassare e alzare tapparelle, tirare tende, aprire e chiudere. Talvolta socchiudere. Ma anche questo un po’ di più o di meno a seconda delle situazioni. Succede, però, che chiudere la finestra in faccia al mondo sappia tanto di gesto egoistico. Quasi volessimo difenderci e preservarci, non lasciarci sfiorare da ciò che, spesso non bello, succede là fuori. Ce ne stiamo affacciati al balcone, mettiamo fuori il naso ma a distanza di sicurezza. Pronti a rientrare nel nostro mondo protetto e sicuro alla prima avvisaglia di pericolo. Che questo si declini pure come coinvolgimento, solidarietà, responsabilità, compassione, cittadinanza.
Papa Francesco l’ha ben detto, con la semplicità che gli è propria: «Per favore, non guardate la vita dal balcone! Mischiatevi lì, dove ci sono le sfide, che vi chiedono aiuto per portare avanti la vita, lo sviluppo, la lotta per la dignità delle persone, contro la povertà e per i valori, e tante lotte che troviamo ogni giorno» (30 novembre 2013)! Non possiamo davvero vivere evangelicamente senza aver mai nulla da dichiarare, annoiati spettatori alla finestra. E mi cambia poco se la finestra sul mondo è piuttosto lo schermo televisivo o quello del computer (uno dei sistemi operativi più usati si chiama proprio così, «finestre», seppur in inglese).
Perché è vero che il mondo in cui viviamo «se lo guardi è niente, ma se lo ami è tutto» (Aldo Nove)! E il buon Dio per primo non se n’è stato comodamente a guardarci dall’alto della sua finestra celeste, ma in Gesù Cristo si è fatto uomo tra di noi.