Africa, tra miraggi e speranze

Laici e religiosi sono impegnati a far rinascere il continente. Ma occorre coraggio e determinazione, soprattutto tra i giovani, per far crescere la società civile e sconfiggere miseria e malattie.
19 Ottobre 2004 | di

La visita al Messaggero di sant";Antonio di padre Emilio Gallo, superiore dei francescani conventuali in Ghana, è stata un";occasione quanto mai propizia per approfondire la conoscenza del suo impegno missionario, ma anche dell";opera dei nostri confratelli. Sono circa una ventina, con altrettanti studenti in formazione, distribuiti in cinque case religiose canonicamente erette. Padre Emilio è nato nel 1940 a Camposampiero, in provincia di Padova, il paese dove sant";Antonio trascorse le ultime settimane della sua vita, ospite del conte Tiso. Dopo gli studi nei seminari del Veneto e nella facoltà  teologica dell";Ordine a Roma, nel 1966 padre Emilio fu ordinato sacerdote. Il suo primo impegno lo svolse come educatore nel settore della formazione dei futuri religiosi. Ma nel 1976, dopo la decisione da parte della Provincia religiosa dei frati della Basilica del Santo di aprire una missione in Ghana, egli espresse subito la sua disponibilità . «Da tempo nutrivo il sogno di condividere la mia vita con persone che fossero in situazioni di particolare necessità  o in terra di missione», confida.
Zanovello. Quali sono state le tappe del tuo impegno missionario?
Gallo
. Ho vissuto innanzitutto momenti di preparazione. Il primo, che ha richiesto mesi di permanenza all";estero per l";apprendimento della lingua inglese, è stato il più duro perché mi ha fatto sperimentare, per la prima volta, il distacco dalla propria terra e dalla propria lingua. L";arrivo in Ghana, poi, ha richiesto un mio «ridimensionamento» per cogliere la cultura locale, i diversi modelli formativi e di rapporto con la gente. Il terzo momento l";ho vissuto con padre Giorgio Abram e fra Giuseppe Contessi, arrivati anch";essi in Ghana nel 1977, ospiti, per desiderio del vescovo locale, di una missione locale gestita da sacerdoti olandesi. È stato un tempo di preparazione immediata al nostro futuro impegno durante il quale abbiamo avvicinato delle persone, imparato un po"; la lingua locale celebrando le nostre prime messe in alcuni villaggi. Alla fine del settembre del 1978, il vescovo ci affidò una zona ad Effiakuma, alla periferia di Takoradi, dove ci siamo costruiti un";abitazione, divenuta poi convento, tra i baraccati del territorio. Lì sono rimasto nove anni, ma quando sono arrivati altri missionari e ci siamo sentiti pronti per aprire un";altra missione, nel gennaio del 1987, accogliendo l";invito fattoci dal vescovo di Sunyani, una città  al centro del Paese, con fra Giuseppe ho assunto la cura pastorale della parrocchia della cattedrale. La parrocchia, allora, era costituita da una sede centrale e da 29 stazioni, che oggi si sono trasformate in 6 parrocchie ben organizzate. Noi frati, dalla parrocchia della cattedrale, ci siamo successivamente trasferiti in un";altra realtà  pastorale della zona di Sunyani, dove abbiamo aperto un convento e una nuova parrocchia dedicata al Sacro Cuore. Dopo essere rimasto per quattro anni in questo parrocchia, nel 1998 mi sono trasferito prima a Cape Coast, e dopo la nomina a custode provinciale, a Saltpond, dove c";è il Noviziato e la «Retreat House», un centro di formazione e spiritualità .
In questi 27 anni di missione, quali sono le esperienze che ti hanno maggiormente arricchito, come uomo e come religioso? Non ti sei mai sentito «straniero» nella tua attività  pastorale?
Nella memoria, rimangono sempre care le esperienze pastorali vissute a Sunyani. Questa seconda esperienza missionaria si è protratta per sette anni ma è divenuto uno dei momenti più belli della mia vita sacerdotale. Ricordo il forte impegno per la formazione cristiana dei fedeli, ma soprattutto la gratificazione e il reciproco arricchimento che ricevevo nei contatti con i catechisti, con le piccole comunità  di base, visitando i villaggi. Noi frati offrivamo idee e proposte ma la loro concretizzazione avveniva per la spontanea collaborazione dei parrocchiani, per il sostegno del vescovo, dei sacerdoti locali e del «pastoral-team» con il quale c";è sempre stata una forte intesa. Ricordo positivamente anche il lavoro di ristrutturazione di alcune specifiche iniziative della comunità  parrocchiale, come il nuovo stile di fare catechesi, di celebrare le liturgie, l";impegno di inserire la celebrazione dei sacramenti nel contesto di un cammino di fede e, infine, la proposta del «rito dell";iniziazione degli adulti». Sono stati obiettivi e tappe di lavoro pastorale che hanno inciso molto nella mia vita. Non mi sono mai sentito culturalmente e spiritualmente distaccato dai miei parrocchiani. Il colore della pelle, però, ha un suo peso. Oggi è associato ad una certa dimensione economica e sociale: una difficoltà , questa, che provo soprattutto nella nuova realtà  in cui mi trovo. La gente, venendo in parrocchia o bussando alle porte del convento, chiede d";incontrare il «padre bianco», anche per avere un aiuto materiale. Il mito della fuga nei Paesi occidentali ha contagiato anche tanti giovani del Ghana. Il miraggio di raggiungere un mondo nuovo, dalle diverse valenze, stimola questi giovani ad intraprendere difficili viaggi attraverso il deserto del Sahara per raggiungere le coste del Mediterraneo; o di affrontare ogni rischio, come quello di nascondersi nelle navi, pur di fuggire dalla propria terra. Questo fenomeno per noi missionari è una sfida. Il Ghana, a differenza di tanti Paesi dell";Africa, oggi vive in pace e senza particolari stati di violenza; e noi cerchiamo di dissuadere tanti giovani, invitandoli ad inserirsi socialmente nel territorio, cercando un lavoro, pronti, se c";è la necessità , ad aiutarli per superare eventuali difficoltà  economiche.
Pensi che oggi i francescani in Paesi come il Ghana abbiano un ruolo profetico?
La nostra presenza si articola in diversi ambiti. Il primo si caratterizza come presenza missionaria e pastorale. Il secondo ambito, per un Paese come il Ghana, è innovativo: fin dai primi anni, infatti, abbiamo promosso l";annuncio del messaggio cristiano attraverso la stampa. Il nostro periodico Catholic Messenger , stampato nella nostra tipografia di Takoradi, con le sue 22 mila copie raggiunge tutte le diocesi del Paese ed è molto ricercato e stimato. Attraverso la rivista, ed altre pubblicazioni minori, presentiamo la Bibbia, i documenti della chiesa e dei vescovi, un";informazione sulle realtà  e sulle iniziative della comunità  cristiana. Il terzo ambito operativo è costituito da centri di spiritualità , come il «Retreat House» di Saltpond, dove offriamo ai sacerdoti e ai laici, la possibilità  di ritiri spirituali, un luogo d";incontro personale con i frati o di particolari esperienze di preghiera. L";impegno missionario-pastorale, la diffusione del messaggio evangelico attraverso i media e la nostra presenza nel centro di spiritualità  di Saltpond sono i tre ambiti operativi che caratterizzano l";opera dei francescani in Ghana.
Oltre a questo, ci sono altri impegni nel settore dell";educazione e dell";istruzione, ma sono legati allo sviluppo delle singole missioni o alle nostre case di formazione. Ciò che invece sento come nuova opportunità , è la valorizzazione dei laici. Essi sono una componente della Chiesa che deve essere maggiormente valorizzata. Alcuni di loro, se preparati, possono essere inseriti nelle nostre realtà , come per esempio nell";editoria o nei settori sociale e assistenziale. In quest";ultimo ambito, è quanto mai significativa l";attività  di padre Giorgio Abram che dal 1978 ha dedicato energie e cure per aiutare i malati di lebbra o quelli colpiti dalle ulcere del Buruli, un";altra malattia diffusa tra i bambini in età  pediatrica.
Dagli anni Settanta ad oggi, padre Giorgio ha mantenuto costanti rapporti con l";Associazione «Amici dei lebbrosi», fondata da Raoul Follereau, e in Ghana è un punto di riferimento e un rappresentante dell";Organizzazione internazionale per la lotta contro la lebbra, l";Anti Leprosy Organization, che opera in accordo e con il sostegno del Ministero della Sanità . È merito di quest";Associazione "; ed anche della dedizione di padre Giorgio "; se la lebbra non è più una malattia endemica.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017