Al di là del branco

Storie e dati sui giovani d’oggi per dimostrare che non sono tutti smidollati, drogati, lanciatori di sassi dai cavalcavia o aspiranti delinquenti. Anzi. Leggere per credere.
02 Dicembre 1997 | di

Dev'essere costato non poco a Luca, 18 anni, lasciare in parcheggio la moto e rinunciare a discoteca e birreria per incontrare Erica. L'appuntamento è per le ore 21. Né un minuto in più né un minuto in meno. Gli accordi sono accordi e Luca non vuole deluderla. La frequenta da cinque anni, da quando un amico gliel'ha presentata. Ma non è la sua fidanzata. Erica ha undici anni, occhi chiari e un casco di capelli nerissimi.

È in carozzella da alcuni anni per una rara malattia. Con Luca altri ragazzi la vanno a trovare. Stanno insieme con lei, cercando di rendere le sue giornate meno pesanti. Intendiamoci: Luca non ha abbandonato nessuna della sue abitudini. E tantomeno ha rinunciato ai suoi divertimenti. Ha soltanto scoperto che può fare qualcosa di utile, che la gioia che prova, quando fa divertire Erica con le sue barzellette o quando l'accompagna per un giro all'aperto, è molto più grande di tante altre avventure.

La storia di Luca difficilmente occupa spazio sui giornali o nei programmi televisivi. Fa più notizia il lancio dei sassi dal cavalcavia, la coltellata data al coetaneo in discoteca, lo stupro di gruppo. E ancora, il giovane che dà  fuoco al barbone, che massacra i genitori per entrare in possesso dell'eredità , oppure che rapina e ammazza per pagarsi la droga. Storie come queste sono all'ordine del giorno.

Ma è questa la gioventù di oggi? E quanti sono i ragazzi come Luca che, pur non rinnegando la loro identità  di giovani del 2000, sanno trovare il tempo per le cose che sembrano andare in controtendenza e invece danno un forte significato alla propria esistenza?

 

I giovani nel rapporto Iard

Chi sono e in che cosa credono i giovani d'oggi? Uno dei dati più chiari emerso dal Quarto rapporto Iard sulla condizione giovanile in Italia  - un'indagine condotta su un campione di 2500 giovani fra i 15 e i 29 anni - è rappresentato dalla sfiducia e dal distacco dei giovani nei confronti delle istituzioni. La rinuncia al dialogo aperto e a una visione collettiva del sociale è forse il comportamento più preoccupante emerso dal sondaggio. I giovani vivono il presente e non sembrano preoccuparsi del futuro. Non vogliono grandi responsabilità  e preferiscono una vita 'circoscritta'. L'87 per cento mette al primo posto la famiglia, al secondo l'amore (79,9 per cento) e al terzo l'amicizia (73,1 per cento).

La scelta di vivere in famiglia anche dopo aver compiuto i trent'anni non è solo perché c'è difficoltà  a trovare lavoro e casa, ma anche perché i giovani tendono a rimandare l'assunzione di responsabilità . 'In famiglia - spiega Carlo Buzzi, docente di sociologia della famiglia all'università  di Trento e curatore, insieme ad Alessandro Cavalli e Antonio de Lillo, del volume Giovani verso il Duemila (Il Mulino) - il giovane trova la sicurezza, mentre nei confronti 'dell'esterno' prevale la sfiducia e il sospetto: il 'prossimo' non è generalmente visto come una risorsa, ma come una potenziale minaccia'. Il 72 per cento dei giovani italiani ritiene che 'non si è mai sufficientemente prudenti nel trattare con la gente; l'86,3 dichiara che la 'gente guarda prevalentemente al proprio interesse' e il 61,6 per cento è persino convinto che 'gli altri, se si presentasse l'occasione, approfitterebbero della sua buona fede'. Perché ci sia l'impegno nel sociale, bisogna invece che l'altro sia percepito come una risorsa positiva'.

'Il 60 per cento dei giovani interpellati - dice ancora Carlo Buzzi - ritiene la solidarietà  un valore molto importante. Alcuni possono essere soddisfatti, ma io sottolineerei che due ragazzi su cinque non lo considerano più un valore'. Molti giovani stanno, cioè, perdendo la sensibilità  sociale. Quelli che si impegnano, una minoranza significativa, lo devono alla famiglia e all'esperienza di socializzazione vissuta.

 

Perché facciamo qualcosa per gli altri

Secondo i sociologi questa fetta, motivata e impegnata, costituisce un terzo del pianeta giovanile. Di giovani che credono nella solidarietà  ce ne sono tanti. Matilde Montanari ha 18 anni, vive a San Lazzaro a Bologna. 'Non sono d'accordo - afferma - con chi dice che i giovani sono privi di ideali. I giovani hanno le loro opinioni, ma non vengono ascoltati. Penso di essere una persona che ha qualcosa da dire. Non penso solo a divertirmi, faccio del volontariato, ma desidero anche studiare e metter su famiglia. Le nostre città  non aiutano ad avere rapporti con gli altri'.

Eugenio Pellegrino, anche lui bolognese, dice: 'Siamo diversi dalla generazione precedente. Per noi i valori sono i soldi, il divertimento, la fede, il servizio alla comunità . Come scout ho imparato a pensare agli altri, agli anziani: andiamo a intrattenerli in casa di riposo, in ospedale a trovare un ragazzo malato, ho fatto una anno di servizio con gli handicappati e un viaggio a Lourdes. La cosa più difficile è iniziare'. Matteo e Valerio di Casumaro e di Cento, in provincia di Ferrara, frequentano l'Istituto professionale di stato, dicono che la realtà  di ogni giorno, quella che viene trasmessa dai telegiornali, è troppo stressante. 'Persino il parroco parla di una realtà  brutta. Noi ci aspettiamo un mondo diverso, migliore, cerchiamo di vivere in un mondo nostro. La nostra classe è una classe molto unita e quando ci sono dei problemi facciamo fronte comune. Di recente è stato inserito un ragazzo portatore di handicap che si è integrato molto presto'.

Alessandro è un ragazzo palermitano, ventiquattro anni, studente della Facoltà  di giurisprudenza, una fidanzata e una famiglia normale. Ma c'è qualcosa che lo distingue dalla maggior parte dei suoi coetanei: lui è uno dei venti giovani volontari che ogni giorno affiancano il salesiano don Baldasarre Meli nella gestione del centro di accoglienza per immigrati extracomunitari 'Santa Chiara'. 'Ho conosciuto questa realtà , ne ho compreso le difficoltà  e mi sono reso conto del fatto che non potevo starmene con le mani in mano, continuando a vivere una vita 'normale' che invece era solo una vita indifferente'.

Francesca Libretti e Maria Dughi abitano a Brescia, hanno tra i loro principali punti di riferimento la famiglia, e pensano che per fare volontariato ci voglia una personalità  forte. Ivan fa parte dell'Azione cattolica e vive a Piedimonte Matese in provincia di Caserta: 'Negli anni Novanta eravamo tutti senza valori, tutti nel branco. Adesso bisogna cambiare. E il volontariato secondo me è fondamentale per questo cambiamento. Ci diamo da fare in parrocchia, per esempio raccogliendo aiuti per i bambini dell'ex Jugoslavia. Poi c'è la fede. Basta avere la fede e come punto di riferimento Gesù Cristo, per capire che nessuno ha diritto di tenere oppresso un altro. Bisogna riacquisire la mentalità  della comunità  e non isolarsi dagli altri, come invece si sarebbe tentati di fare'. Ha gli occhiali rossi e un paio di jeans, si chiama Raniero Lilliu e abita a Samassi, in provincia di Cagliari. 'Esistono dei giovani che cercano dei valori - afferma Raniero - . Ma nessuno li propone. Noi come cattolici dobbiamo saperli proporre. Invece si criticano i giovani più che cercare di aiutarli'.

Una testimonianza di solidarietà  concreta arriva anche dalle zone terremotate. Padre Giancarlo Rosati, custode di Santa Maria degli Angeli ad Assisi, afferma: 'Il terremoto ci ha reso più poveri. In queste circostanze si perdono delle cose, ma si riscoprono dei valori che sono quelli di san Francesco. E i giovani sono arrivati numerosi nelle zone terremotate. Nei giovani ci sono tanti segni di generosità , di disponibilità , di coraggio'.

 

La chiesa in dialogo con i giovani

Secondo il sociologo Franco Garelli, la chiesa 'ha già  in atto un dialogo con i giovani, di cui Parigi e il raduno nazionale di dodicimila capi scout in Irpinia sono i testimoni recenti. Vi sono anche altri segnali positivi che indicano che 'c'è un desiderio di mobilitarsi, di rispondere agli inviti' come, per esempio, l'afflusso enorme all'incontro di preghiera organizzato ogni anno dopo Natale dalla comunità  di Taizè. L'adesione a queste proposte - sottolinea Garelli - è indice di una preziosa pista da definire e sulla quale insistere: i giovani non vogliono prediche, ma respirare un clima dove ci sia il 'con-credere', ma anche il 'con-vivere', la cui implicazione è, quindi, vedere un luogo dove la 'bontà  della proposta si veda dalle opere'. Insomma, occorre prendere in considerazione 'la ricerca di positivo che è nei ragazzi, restituire il senso della speranza', far loro avvertire che è realmente possibile costruire'.

Fra Julio Ibiriku, ideatore del progetto Ci sarà  dei frati francescani conventuali impegnati nella pastorale giovanile, dice: 'I giovani vengono visti dal mondo adulto o come un settore problematico della società  oppure come dei consumatori da sfruttare. Invece, dalla mia esperienza di contatto diretto con loro, scopro che il mondo giovanile è soprattutto una risorsa. Attraverso il canale della musica, che mi consente di avvicinare tanti ragazzi, ho constatato l'enorme desiderio di comunicare presente nel cuore del mondo giovanile, la sofferenza che nasce dal fatto di sentirsi soli, incapaci di trovare delle forme di espressione adeguate e degli interlocutori capaci di ascoltare in modo disinteressato. La musica è quello strumento che ci consente di entrare nelle diverse dimensioni della vita del ragazzo'.

'La chiesa guarda ai giovani con molta speranza - conferma monsignor Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea, da sempre attento alle problematiche sociali - . È vero, i giovani sono più disinteressati rispetto a una volta, ma forse è anche colpa nostra, perché non riusciamo a cogliere le loro istanze, a cercare la loro lunghezza d'onda. Facciamo discorsi che non rientrano nei loro quadri mentali. Ai giovani chiedo di non disperdere quel patrimonio di valori che abbiamo ereditato; agli adulti chiedo uno sforzo comune per dare loro speranza, affinché a loro volta ci diano il senso di come sarà  il cammino della società  e dell'avvenire'. ·

Generazioni scomparse
Figli di nessuno

Un fenomeno inquietante: i ragazzi non avvertono i legami con il passato e non guardano al futuro. Ne parliamo con il sociologo Pierpaolo Donati.

A Pierpaolo Donati, docente di sociologia all'università  di Bologna, autore del libro Giovani e generazioni. Quando si cresce in una società  eticamente neutra (Il Mulino), abbiamo chiesto perché abbia sostenuto la scomparsa del senso generazionale.

'Le generazioni sono scomparse - ha risposto Donati - perché i ragazzi non hanno più il vissuto di un sentimento comune che viene dal passato e va verso il futuro. C'era una generazione quando un insieme di individui della stessa età  viveva una vicenda storica comune e pensava il futuro assieme. Oggi questa comunità  di sentimenti, di progetto non c'è più. I giovani di oggi sono frammentati, sono individualizzati, sono tanti individui molto isolati fra di loro, per cui la generazione viene a scomparire'.

Msa. Quali sono i risultati più importanti della vostra ricerca condotta sui giovani? Che valori hanno i giovani, come vivono la loro identità ?

Donati. L'identità  dei giovani è molto individualizzata e quindi centrata sull' 'io'. Il risultato della nostra ricerca può essere sintetizzato così: i nonni si definiscono come 'figli di': io sono il figlio di Guido, di Maria... I genitori si definiscono in base all'occupazione e dicono: sono un operaio, sono un impiegato... I figli si definiscono in base al proprio io, quello che loro chiamano il beautiful io, cioè l' 'io bello'. Si definiscono in base a come pensano di essere visti dagli altri per una loro immagine individuale: se sono biondi o bruni, se portano l'orecchino, se sono griffati, e così via. Questo dà  il senso di come sia cambiata l'identità  dai nonni ai genitori, ai figli.

Cosa fare per quei due terzi di giovani che non hanno una identità  generazionale?

Questi giovani non si sentono generati dalla società  e non si sentono capaci di generare a loro volta la loro società . Perché, come abbiamo visto nella ricerca, solo un terzo dei giovani ha questa capacità  di vivere la propria generazionalità . Cosa fare con gli altri? Gli altri due terzi sono in balia della società , nel senso che occorre che in tutti i luoghi sociali si apra il discorso intergenerazionale. In altri termini, bisogna che gli adulti per primi, perché hanno la maggiore responsabilità , si ripensino generazionalmente. Cioè, si ripensino come genitori di una generazione che cresce, facendo spazio a questa generazione, dialogando con questa generazione, nella scuola, nelle associazioni, nelle parrocchie, nei sindacati che non ne vogliono sapere del dialogo intergenerazionale, nei partiti, nella stessa chiesa, in tutti gli ambiti della società . Bisogna ripensarsi generazionalmente; tutte le persone, a partire dagli adulti, devono chiedersi: io, come mi rapporto ai giovani? Che cosa lascio loro? Come costruisco il mondo per loro? In che modo li coinvolgo nella costruzione della società ? Perché tutti parlano di giovani, ma di fatto poi i giovani non trovano spazio da nessuna parte, perché vengono parcheggiati nella scuola, non gli si dà  il lavoro o comunque glielo si dà  col contagocce.

Penso soprattutto ai sindacati, che in teoria dicono di interessarsi dei giovani, ma in realtà  difendono gli interessi degli anziani. Vediamo, per esempio, il dibattito sul welfare state. Allora bisogna ricominciare a fare dialogo generazionale a partire dai centri nevralgici del potere di questa società .

C'è una difficoltà  di uscire dalla famiglia, dalla famiglia cosiddetta 'marsupiale' che viene abbandonata sempre più tardi.

La difficoltà  dei giovani di uscire dalla famiglia è legata al fatto cui accennavo prima: la scuola tende a tenerli all'interno il più possibile, il mercato del lavoro non fa spazio per loro, quindi l'unica possibilità  che loro hanno è quella di accomodarsi in famiglia. D'altra parte, i genitori sono accondiscendenti in questo, e quindi si realizza questa forma che noi abbiamo chiamato di 'famiglia lunga' del giovane adulto che sta in famiglia fino a 30-35 anni e anche oltre, che è un fenomeno molto italiano. L'Italia, tra tutti i paesi d'Europa, è quella che ha la percentuale più alta dei giovani che restano in famiglia molto oltre l'età  media di matrimonio, che è di 27 anni per la donne e 28-29 per l'uomo, ma che si sta alzando. In realtà , abbiamo ragazzi che restano in famiglia fino a 35-38, 40, e che si chiamano ancora ragazzi a quarant'anni. Questo significa che abbiamo una società  che rischia il vuoto e che non ha saputo aiutare i giovani a diventare adulti. Si tratta di invertire questo processo.

Secondo lei, che ruolo ha svolto e che ruolo può svolgere oggi la chiesa in una realtà  molto diversa da quella di ieri?

La chiesa ha svolto un ruolo molto importante, che è quello educativo. Dopo tutto, l'unico luogo organizzato della società , in cui c'è una vera preoccupazione per i giovani è la chiesa. La chiesa che si preoccupa per l'educazione dei giovani nelle scuole fin dalla materna sino alle superiori, nelle parrocchie, nelle associazioni giovanili, nei movimenti giovanili. Però si trova in grave difficoltà  perché non può più andare avanti con i vecchi modelli. Cioè, non basta una chiesa amorevole verso i giovani, che vuole il loro bene, favorendo l'aggregazione di gruppi, associazioni, in parrocchia, nella scuola cattolica... perché tutto questo non resiste più. Le scuole cattoliche stanno chiudendo con la media spaventosa di quasi una al giorno. Le associazioni si stanno svuotando al loro interno... Quindi la chiesa ha svolto finora un ruolo essenziale, ma se non si ripensa anch'essa generazionalmente non potrà  più svolgere questo ruolo, perché i giovani non troveranno più anche in questi ambiti educativi una proposta che li soddisfi, che renda attraente la chiesa.

   
   

 

   
Gioventù operaia cattolica
     

Giovani per i giovani

     

Il 40 per cento dei giovani italiani - ragazzi e ragazze dai sedici ai trent'anni - lavora come operaio. Taluni hanno raccolto vari fallimenti scolastici, altri hanno completato scuole medie e superiori, e costituiscono la generazione che sta vivendo i processi di trasformazione. Di loro pochi si curano, anche i sindacati sono lontani.

     

Ci sono, però, altri giovani che li stanno aiutando a essere protagonisti nel posto di lavoro, nel quartiere, a scuola, e vivere la fede a partire dalla vita quotidiana. Sono i giovani della       Gi.O.C . (Gioventù operaia cristiana), movimento fondato in Belgio nel 1925 da don Joseph Cardijn, e diffuso in Italia a partire dagli anni Cinquanta, che da quasi mezzo secolo, in Italia, svolgono un servizio davvero importante.

     

Il progetto della Gi.O.C. è un cammino di quattro tappe: aggregazione, conoscenza e formazione del gruppo, apertura verso l'esterno (attività  nel territorio in cui è inserita la comunità ), responsabilità  e scelta. Chi collabora è invitato a impegnarsi nel movimento, perché la proposta educativa parte dallo stare insieme con i giovani e prende forma nell'esperienza del gruppo, che diventa luogo di crescita, di conoscenza reciproca, scuola di fede e di azioni di solidarietà . Senza dimenticare che i giovani hanno uno stile di vita, un       linguaggio e bisogni diversi a seconda delle fasce di età . 'Si discute insieme, si svolgono le attività  formative - spiega Massimiliano Facchini della Gi.O.C. milanese - e si indagano i temi che toccano i giovani. Migliaia di giovani vengono contattati ogni anno. Alle giornate       formative invitiamo anche giovani che conosciamo sul territorio, amici, compagni di lavoro'. L'11 ottobre scorso c'è stata la festa nazionale a Rimini, sul tema Io rischio positivo... perché sono vivo , e il rischio, carattere fondamentale dell'età  giovanile, è messo in luce come filo rosso che unisce il tempo del lavoro (con frequenti incidenti) e il tempo libero (un giovane su due dichiara di aver fatto attività  a rischio).

     

Cosa chiedono i giovani operai? Sicuramente di essere ascoltati e accompagnati nella ricerca di una qualità  anche nel lavoro: c'è la consapevolezza che il lavoro non è più la dimensione centrale della vita, ma rimane ancora momento fondamentale della crescita dell'identità  della persona, e senza lavoro si soffre e ci si perde. Non basta dire che il lavoro è risposta alla necessità  di denaro, ci sono domande di senso che non vanno lasciate cadere.

     

Rosangela       Vegetti

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017