Alla ricerca della tolleranza perduta
La guerra è finita? Sì, forse, quasi... Una risposta a questa semplice domanda è difficile averla in Bosnia. Difficile, perché ancora incerta è la «stabilizzazione». Il nome Sfor dato alla forza militare inviata qui per impedire la guerra significa Stabilization Force. Ci si limita alla «stabilizzazione» perché la pacificazione, dopo quel che è accaduto qui dal ' 90 al ' 95, è ancora un sogno. Non si fanno previsioni sul futuro di questa regione, abitata da quattro popoli: serbi, croati, bosniaci e montenegrini, ognuno dei quali ha una propria fede, proprie tradizioni, lingua, pregiudizi, rancori e lutti.
«La guerra è sempre dietro l' angolo... » dicono coloro che sono scampati ai massacri. «Basta che se ne vadano i militari... e scoppierà tutto di nuovo! Forse peggio di prima... ».
Il timore maschera la paura di un popolo, oggi diviso, segnato da un passato recente pieno di orrori e sofferenze. Ogni volta che torno in Bosnia sento che il peggio non è quel che si vede, ma ciò che è racchiuso nel cuore della gente, che prima era abituata a un clima di tolleranza ora cancellato dall' odio.
La storia di Svetlana. L' espressione di un volto, un gesto, una lacrima, a volte valgono più di tante parole per rivelare il dramma di un popolo. O una storia «comune» come quella di Svetlana: una ragazzina diciassettenne bosniaca rifugiata in Italia durante il conflitto. La osservavo mentre, seduta in un pullman, stava ritornando nella «sua» Sarajevo, ormai monumento allì orrore. Dai finestrini del pullman guardava, muta e immobile, la città che cerca di riprendersi la modernità frantumata da quattro anni di devastante guerra.
Il pullman si era fermato davanti alla caserma di un contingente della Sfor. Svetlana, visti gli alpini italiani in divisa, le armi e gli automezzi, di colpo è scoppiata in lacrime: «Quei soldati mi ricordano troppo il passato», mi disse. Sono trascorsi cinque anni da quando ha lasciato Sarajevo e quel passato la sconvolge ancora e così la sola cosa che può dire ha la forza di una lacrima fatta di paura.
«Da quando in Bosnia è cessato lo stato d' emergenza, gli aiuti umanitari sono diventati rari, soprattutto per luoghi lontani dalle città - spiega un capitano degli alpini - per questo la nostra presenza è davvero umanitaria. Spesso siamo gli unici a giungere in località dove gli aiuti non arrivano».
«La guerra per ora è finita - mi dice un profugo che ha fatto ritorno con la famiglia nella casa semidistrutta - ma noi non abbiamo mai smesso di combattere per sopravvivere!». «I miei figli non vanno a scuola, e mangiano quello che riusciamo a trovare... Vede, quello è ciò che resta della mia casa... Distrutta come la nostra vita!».
La gente teme che i militari della Sfor lascino la Bosnia. «Se dovessero andarsene - ci dicono per strada - tutto qui riesploderebbe».
La Bosnia, malata nell' anima. «La Bosnia è come un malato che ha bisogno di tempo per guarire da una lunga e dolorosa malattia dell' anima e del corpo - dice il vescovo ausiliario cattolico di Sarajevo, Pero Sudar - . Una guerra cambia tutto, principalmente l' anima degli uomini. I cannoni e i cecchini hanno distrutto anzitutto la possibilità di vivere la ricchezza della diversità delle etnie e delle culture. Sarajevo, la città simbolo del calvario dei Balcani non è più quella di una volta. Non continuate a credere nella mendace affermazione che i Balcani siano esplosi a causa di un conflitto religioso... Quella guerra è stata pianificata anche per strumentalizzare i sentimenti della nostra gente, costretta a subire per troppo tempo la negazione della speranza».
«Credete nella verità ... !» sembra voler gridare il vescovo.
«Sono stato testimone dello sforzo per la pace da parte delle comunità religiose in Bosnia ed Erzegovina. Anche durante l' assedio - spiega il vescovo - a Sarajevo le religioni si incontravano nel Consiglio interreligioso formato dai responsabili delle diverse comunità impegnati in un' intensa cooperazione spirituale. La collaborazione interconfessionale dura da molti anni, in qualche caso secoli... Cattolici, musulmani, ebrei, ortodossi hanno una tradizione di convivenza senza precedenti nella storia europea. Un 'miracolo' storico che la guerra ha disintegrato».
Questa la risposta del vescovo di Sarajevo al mondo socialista occidentale che accusa i bosniaci di intolleranza religiosa. «Oggi stiamo pagando le conseguenze di una politica cieca e di un falso storico che associa il sentimento religioso al nazionalismo estremista. Lo spirito di separazione non era naturale per il nostro popolo».
A Sarajevo c' è una strada che divide le coscienze: un muro virtuale tracciato dagli accordi di pace, che separa il mondo musulmano da quello ortodosso, cioè i bosniaci dai serbi. La strada collega i diversi quartieri della città . I risentimenti sono scritti nei volti della gente. Non è facile trovare un tassista disposto a portarti da una parte all' altra di questi quartieri. Spesso ti fa scendere proprio sul confine invisibile, senza darvi spiegazioni. Pochi proseguono, ma prima tolgono la scritta «taxi»: «Troppo rischioso» spiegano.
Sarajevo sta ridiventando una città vivibile: si sente e si vede l' effetto degli investimenti europei per la ricostruzione. Ben diverso è ciò che accade nel resto della regione. Nei centri minori come Tusla, Goradze, Zbreniza, sono ancora aperte le ferite della distruzione. La povertà , la disoccupazione, i frequenti suicidi sono le tracce di una guerra che per tanti è ancora un incubo da vivere.
«La Bosnia - ricorda Pero Sudar - è un immenso ghetto! La divisione del territorio bosniaco in aree nelle quali confinare le varie etnie, è un progetto 'politicamente falso'. La Bosnia in realtà è divisa in due aree: quella prettamente bosniaca e quella riservata alla Repubblica Sebsca con il 49 per cento del territorio. La frammentazione è poi evidente con la suddivisione in cantoni, con i relativi presidenti che si alternano alla loro guida. Più che un progetto, è un tentativo di convivenza, fatto secondo dogmi politici che impediscono che la pace decolli veramente».
Le scuole per la pace. La gente chiede democrazia e lavoro. «La dignità è l' unica cosa che ci resta - mi dice una donna di Sarajevo - , essa ci ha fatto sopravvivere durante l' assedio serbo». «Questa gente - precisa monsignor Sudar - è convinta che la guerra non risolva i problemi. Ci vuole tempo, perché la stabilizzazione si consolidi e si ricostruiscano le coscienze».
La violenza ha due tempi: quello dell' azione e quello delle conseguenze. «Una Bosnia divisa serve solo a facilitare la gestione politica del problema - afferma il vescovo - . La vera Bosnia democratica dovrebbe risorgere sulle premesse del rispettivo riconoscimento delle diversità , e sull' inevitabilità della convivenza civile». Per questo sono state fondate le «Scuole per l' Europa».
La Bosnia - è scritto in un pieghevole che presenta queste scuole - ha dovuto sopportare il suo terzo 'colpo al cuore' in questo secolo... Per questo la Chiesa cattolica bosniaca, oggi ridotta da 528 mila a 180 mila fedeli, con oltre mille chiese distrutte e un' esistenza assai precaria durante la guerra, ha intrapreso un audace progetto culturale ed ecumenico: le scuole multietniche e multireligiose.
«Oggi - dice monsignor Sudar con evidente soddisfazione - queste scuole 'cattoliche' hanno quasi 3mila studenti tra musulmani, ortodossi e cattolici, suddivisi in cinque istituti situati in diverse parti del paese. Esse formano i ragazzi al reciproco rispetto, nel segno del vicendevole arricchimento culturale e religioso. Spero che diventino un modello per tutte le scuole bosniache».
Nelle scuole c' è libertà di praticare la religione, gli alunni hanno solo l' obbligo di frequentare una lezione di 'cultura religiosa', nella quale vengono spiegate le differenze e le affinità delle varie religioni presenti in Bosnia. «I nostri sono ragazzi normali che vorremmo educare al 'nuovo mondo' della comprensione, della pace e dell' accettazione che nasce dalla grazia di Dio e dalla disponibilità dell' uomo - spiega monsignor Sudar - . Solo così potremmo credere nel ritorno dei profughi, in quell' apertura delle frontiere, in particolare quella Sebsca, che rimane un ostacolo per la collaborazione.