Alle urne: Palestina e Israele
Da tempo, era stata prevista per gennaio la data per le elezioni legislative palestinesi, un appuntamento decisivo per appurare qual è la tendenza dell'opinione pubblica araba e se questa vuole appoggiare la dirigenza moderata raccolta attorno ad Abu Mazen. Ora, a sorpresa, queste elezioni si intrecciano con quelle israeliane, anch'esse decisive per dare il sostegno necessario ai politici che, come Sharon e Peres, dopo il ritiro delle ventuno colonie ebraiche dal territorio di Gaza, vogliono proseguire con il disimpegno militare israeliano da larghe parti della Cisgiordania, premessa per la creazione di uno stato palestinese accanto a quello israeliano. Nella Palestina araba (Gaza e Cisgiordania) il nemico della pace si chiama Hamas, acronimo del «Movimento di resistenza islamica» che significa «zelo». Sono i fondamentalisti palestinesi, che i politici israeliani avrebbero voluto escludere dal voto. Ricordo quel che dicono gli amici della Comunità di sant'Egidio - grandi esperti di trattative di pace -:«Non sempre si può trattare con chi si vorrebbe, sovente si deve parlare ma con gli interlocutori effettivi, che hanno un peso sul terreno». Così il presidente palestinese Abu Mazen (nome di battaglia di Mahmud Abbas), ha voluto correre il rischio di farli partecipare alle elezioni, per trasformarli da fautori di guerra e attentati in interlocutori politici. Se dalle urne la loro presenza uscirà ridimensionata a favore di al-Fatah , il partito storico di Arafat, probabilmente sarà più facile coinvolgerli, in qualche modo, nel dialogo di pace che la «prossima autorità nazionale palestinese» riannoderà con il governo israeliano. Se, invece, continueranno a sabotare gli sforzi di pace, la replica di Abu Mazen è chiara: «A nessuno sarà permesso di avere una rappresentanza parlamentare - ha detto - e una propria milizia armata».
Questo della presenza di numerose milizie armate fondamentaliste e «laiche», è il maggior problema di Abu Mazen post-elezioni. Il governo israeliano, infatti, si aspetta che le sciolga o le combatta, prima di proseguire nelle trattative. Ma, per il momento, la dirigenza moderata palestinese si limita a governare più che a comandare. La polizia palestinese, forte di quarantamila uomini, in parte addestrati dall'Unione europea, è demotivata e priva di mezzi: i suoi tentativi di imporre l'ordine, soprattutto nella turbolenta Gaza, si sono sin qui risolti in sconfitte, di fronte a milizie più agguerrite. E, tuttavia, il consolidamento dell'autorità palestinese, se le elezioni saranno a suo favore, porterà gradatamente a un suo rafforzamento, anche sul «terreno», e a un indebolimento dei nemici della pace. Soprattutto se una parte di loro accetterà di giocare la carta della democrazia, formando l'opposizione politica all'interno del Consiglio nazionale palestinese (il loro parlamento). Quando è possibile, è sempre preferibile una soluzione politica a quella militare. Nella stessa Algeria, dopo dieci anni di guerra civile, il presidente Bouteflika ha accettato di reinserire i fondamentalisti che hanno rinunciato alle armi nella competizione politica. E lo stesso sta facendo Mubarak in Egitto, con i «fratelli musulmani».
Una sorpresa la scissione nel Likud
Da parte israeliana, c'è stata la sorpresa della scissione del partito di destra, il Likud (che, paradossalmente, nel suo nome suona «unità »). Ne è uscito il premier Ariel Sharon, avendo capito che per proseguire il tentativo di pace occorreva abbandonare l'estrema destra e formare un partito di centro, Kadima (Avanti), con l'apporto di altre tendenze politiche. Sharon per anni è stato, lui stesso, un estremista: una delle colonie ebraiche in Cisgiordania si chiama «Ariel» in suo onore; io ricordo, nel centro della Gerusalemme araba, sventolare una enorme bandiera israeliana da una casa che lui, Sharon, aveva acquistato proprio per ribadire la sovranità dello stato israeliano. Molto falco e per niente colomba. Ora, però, senza essersi tramutato in «colomba», Sharon vuole giocare la carta del realismo politico, sulle orme di un altro politico di destra del Likud, Beguin, che firmò la pace con Sadat nel 1979 dopo il ritiro delle truppe israeliane dal Sinai. Quanto all'altro partito storico israeliano, il Mapai laburista, il suo nuovo leader, l'ex sindacalista Amir Peretz, ha provocato le elezioni togliendo l'appoggio al governo Likud-laburisti. Peretz viene da Sderot, una cittadina sotto il tiro dei missili della jihad islamica, ma ha dichiarato di «essere disposto a parlare con Hamas, a patto che il movimento riconosca l'esistenza dello stato di Israele». Da parte sua, Sharon sembra voglia passare alla storia come l'artefice della «grande pace» e insiste a dire che gli israeliani sono disposti a «dolorosi sacrifici» pur di arrivarci. È ovvio che l'esito delle elezioni israeliane, in marzo, sarà influenzato dai risultati di quelle palestinesi in gennaio.
Dopo le elezioni si riparlerà di pace
Il tempo di elezioni non è il più adatto per trattare, ma è possibile che, subito dopo, si apra un nuovo scenario di dialogo. Purché i rispettivi elettori, arabi e israeliani, diano forza ai politici del dialogo e ridimensionino, con il loro voto, gli estremisti di entrambe le parti. Allora sì che potremmo dire che si schiude una prospettiva piena di speranza. Mai come ora, la pace dipende dai risultati di una consultazione democratica, dagli esiti delle doppie elezioni, palestinesi e israeliane.
Ma anche dal contesto internazionale. È tristemente ben noto che dall'Iran arrivano abbondanti aiuti in denaro ai fondamentalisti palestinesi e armi ed esplosivi, tramite gli hezbollah libanesi. I kamikaze non vengono soltanto spinti al loro gesto dal fanatismo ideologico ma «incentivati» anche dalla convinzione che così assicurano l'avvenire alle proprie famiglie, che riceveranno sostanziosi aiuti economici a vita. La principale fonte di questi aiuti rimane l'Iran, con il suo reddito petrolifero. Che ha lanciato una nuova sfida, quella delle centrali nucleari. I rappresentanti dell'Unione europea, il «terzetto» composto da Gran Bretagna, Francia e Germania, non contestano il diritto dell'Iran ad avere centrali nucleari per la produzione di energia, anzi sono disposti a fornire il combustibile nucleare, purché rimanga sotto loro controllo. Quel che non possono accettare è che l'Iran abbia il suo ciclo indipendente di arricchimento dell'uranio che, come si sa, può direttamente sfociare nella creazione di bombe atomiche. La situazione del Medio Oriente è troppo esplosiva, perché si aggiunga una grande potenza, quale può diventare l'Iran, fornita di armi atomiche. E il cui governo nega l'esistenza allo stato d'Israele. La comunità internazionale deve farsi carico, con mezzi politici e non militari, di questo problema, che influenza indirettamente ma fortemente il possibile dialogo di pace tra israeliani e palestinesi.