Allergie alimentari, malattia del secolo
L’oroscopo non prevede il futuro, ma dal segno zodiacale sembra possa dipendere il rischio di sviluppare un’allergia ad alcuni alimenti. Inizialmente pareva poco più di una curiosità, uno di quegli scherzi dell’epidemiologia che, a volte, trova correlazioni assurde, a cui è difficile attribuire un significato. Molti studi sono giunti, invece, alla stessa conclusione: è più facile che diventino allergici agli alimenti i bambini nati in autunno rispetto a quelli venuti alla luce in primavera.
Davanti a questo dato i ricercatori hanno provato a formulare ipotesi e cercare spiegazioni. Un gruppo di australiani, per esempio, ha osservato che nel loro Paese, nel 2007, sia le formule ipoallergeniche di latte per la prima infanzia sia gli auto iniettori di adrenalina, da tenere a portata di mano in caso di shock anafilattico, erano stati prescritti con maggior frequenza a piccoli nati in autunno e in inverno.
«Dal confronto con la differente intensità dell’irradiazione solare nelle diverse regioni del Paese, siamo giunti alla conclusione che il fenomeno potrebbe dipendere da una minore esposizione ai raggi ultravioletti e quindi a una relativa carenza di vitamina D tra i bimbi nati in autunno e inverno» spiega Raymond Mullins, allergologo del John James Medical Centre di Deakin, a Canberra.
Secondo un gruppo finlandese, invece, la spiegazione andrebbe cercata nella vita intrauterina, cioè nell’esposizione ai pollini primaverili in una fase cruciale dello sviluppo del sistema immunitario del feto.
Ma che cosa c’entrano i fastidiosi pollini, responsabili di raffreddore da fieno e asma, con le allergie alle noccioline o alle uova? «Le reazioni crociate sono frequenti – spiega Jan Schroeder, allergologo tedesco da trent’anni al lavoro presso l’Ospedale di Niguarda a Milano –. Le allergie alimentari riguardano quasi esclusivamente i bambini e tendono a risolversi da sole dopo i 4-5 anni. Negli adulti, invece, nel 95 per cento dei casi il disturbo dipende da una precedente allergia respiratoria: è tipico il caso di una persona allergica ai pollini di betulla a cui, tutto a un tratto, pizzica in gola il boccone di mela».
Si calcola, inoltre, che dal 20 al 70 per cento dei soggetti allergici ai pollini sviluppi prima o poi reazioni crociate con gli alimenti. Chi, per esempio, starnutisce quando ci sono nell’aria i pollini di artemisia, può diventare più facilmente allergico alla frutta secca o ad alcune verdure come le carote o il prezzemolo; chi rischia reazioni anche gravi per l’esposizione al lattice deve stare attento alle banane; chi è tormentato dagli acari di casa può trovarsi di punto in bianco con la lingua gonfia gustando un piatto di spaghetti ai frutti di mare che magari, fino ad allora, non gli avevano mai creato problemi. Da tenere sott’occhio pure la camomilla, all’apparenza innocua tanto da essere chiamata anche «erba dei bambini». Eppure l’allergia ai pollini di ambrosia – appena importata dagli Stati Uniti e per questo più frequente nella zona intorno all’aeroporto internazionale di Malpensa da dove i pollini, sulle ruote dei camion, si stanno diffondendo nel resto del Paese – può indurre risposte allergiche anche alla bevanda calmante per antonomasia.
Anche un adulto che ha sempre mangiato di tutto può diventare improvvisamente allergico a un determinato alimento: tale alimento, però, non va eliminato dalla tavola al primo campanello di allarme. Sarà uno specialista a verificare se si tratti di vera e propria allergia. Non basta, infatti, un disturbo occasionale per etichettare un cibo come off limits così come, al contrario, è difficile riconoscere un’allergia alimentare all’origine di malesseri poco definiti. Ci possono essere reazioni immediate che mettono in allarme chiunque (arrossamenti o gonfiori con prurito della pelle o degli occhi, nausea, vomito o diarrea fino alle difficoltà respiratorie e alle alterazioni del ritmo cardiaco che possono preannunciare uno shock anafilattico) e manifestazioni più sfumate, che compaiono a distanza di ore dal pasto, per le quali è più difficile trovare un collegamento diretto. «Il legame temporale è importante per la diagnosi – spiega Gianni Cavagni, primario di allergologia pediatrica all’Ospedale Bambino Gesù di Roma –. Per pensare a un’allergia alimentare occorre che la reazione si presenti entro mezz’ora, al massimo 2 ore, dall’assunzione del cibo incriminato, oppure entro 36 ore, nel caso delle allergie di tipo ritardato».
Se le manifestazioni sono tardive, la diagnosi può basarsi solo sull’abilità del medico a collegare i sintomi. Nelle forme immediate – che dipendono da anticorpi chiamati IgE – il sospetto clinico può essere confermato con un esame del sangue che serve a cercare gli anticorpi specifici per quel determinato alimento, e con il «Prick test», nel quale si punge la pelle attraverso una goccia di estratto delle sostanze sospette.
«È inutile invece, di solito, dosare la quantità totale di IgE – affermano gli autori delle nuove linee guida su questo tema, appena pubblicate dal National Institute of Allergy and Infectious Diseases statunitense –, così come effettuare altri tipi di test cutanei».
Il documento degli esperti americani scalfisce molte certezze diffuse nell’opinione pubblica: «È vero, per esempio, che la presenza di una dermatite atopica aumenta il rischio di allergie alimentari e che gli asmatici possono avere le reazioni più gravi – sostengono gli esperti –, ma ciò non significa che chi ha queste malattie debba evitare gli alimenti considerati allergizzanti, se non c’è prova che questi scatenino reazioni in quel determinato individuo».
Un’altra questione è quella della familiarità. Avere genitori o altri parenti stretti allergici aumenta il rischio di sviluppare un’allergia, ma astenersi dal latte o dalle uova, dai frutti di mare o dalle noccioline, non lo riduce. «Il discorso si applica anche alle donne in gravidanza o che allattano – precisa Cavagni, confermando il parere dei colleghi statunitensi –. Nonostante le indicazioni che sono state date dai pediatri per decenni, non è mai stato provato che quel che mangia la mamma in attesa o dopo il parto, oppure il piccolo con le prime pappe, incida sulla probabilità di sviluppare un’allergia alimentare».
Su questo, il documento degli allergologi americani è chiaro: «Non bisogna ritardare oltre il quarto-sesto mese di vita l’introduzione di alimenti solidi, compresi quelli noti per la loro capacità di scatenare allergie». Nessuna paura, quindi, a mettere un po’ di pomodoro per insaporire la pastina o a far assaggiare il pesciolino anche ai bebè. Prima, però, le Linee guida ribadiscono, ancora una volta, l’importanza dell’allattamento al seno: se questo fosse impossibile, piuttosto che il latte di soia, nei bambini ad alto rischio, si possono prendere in considerazione i prodotti speciali a base di idrolisati delle proteine del latte.
«Nella maggior parte dei casi, le allergie alimentari dei bambini non sono gravi e tendono a risolversi da sole dopo i 4-5 anni di età» conclude Schroeder. Nei casi più seri, che non rappresentano più dello 0,5 per cento del totale (nei quali anche piccolissime quantità di alimento possono scatenare reazioni pericolose), si può pensare a un trattamento di desensibilizzazione, che però deve essere condotto in ospedali pediatrici con esperienza in questo campo. «Lo facciamo soprattutto per alimenti diffusi ovunque come il latte e l’uovo – spiega Cavagni –, con cui è più facile venire a contatto anche involontariamente. Somministrandoli in piccolissime quantità, ma a dosi crescenti nel tempo, in un ambiente sicuro e controllato dove i medici sono pronti a intervenire in caso di necessità, abituiamo il sistema immunitario a tollerare anche queste sostanze».
Niente paura, infine, quando è il momento di sottoporre il bambino ai vaccini, per lo meno i più comuni. Molti sono prodotti su uova di gallina, per cui tante mamme si chiedono se sia prudente sottoporre i piccoli allergici al trattamento. «Da evitare assolutamente in chi è allergico all’uovo sono solo le vaccinazioni contro la rabbia e la febbre gialla – affermano gli esperti statunitensi –, mentre quelle contro morbillo, parotite e rosolia si sono dimostrate assolutamente sicure anche in chi ha avuto reazioni gravi alle uova».
Zoom
Allergie, intolleranze e fantasie
Le allergie alimentari sono in aumento. Ma quante sono vere? Meno della metà, secondo i dati forniti dalle nuove Linee guida statunitensi per la diagnosi e la gestione delle allergie alimentari. Non è raro che anche i medici sbaglino: in uno studio inglese pubblicato qualche mese fa, e condotto su un’ottantina di bambini risultati positivi a un primo test per l´allergia alle arachidi, accertamenti più approfonditi hanno smentito la diagnosi in tre quarti dei casi.
Altre volte invece una patologia c’è, ma non si tratta di allergia. È quel che capita a chi soffre di mal di pancia e diarrea subito dopo aver bevuto latte. I sintomi possono comparire anche dopo aver mangiato altri prodotti contenenti lattosio: dai prodotti da forno con piccole quantità di burro a molti tipi di prosciutto cotto. In questo caso, alla base dell’intolleranza non c’è una reazione del sistema immunitario come nelle allergie, ma la carenza dell’enzima che serve a digerire lo zucchero del latte nell’intestino. Per motivi simili, si possono sviluppare intolleranze ad altri zuccheri, come il fruttosio e il sorbitolo. Non potendo essere assorbito attraverso la parete intestinale, il lattosio fermenta, provocando gonfiore, crampi e diarrea. La fermentazione produce idrogeno che viene subito assorbito dalla parete intestinale ed eliminato con la respirazione. Per questo la presenza di tale intolleranza può essere accertata con il cosiddetto test del respiro o breath test.
Il disturbo può comparire nella prima infanzia e poi sparire, oppure tornare in varie fasi della vita. Si può superare introducendo gradualmente piccole crescenti quantità di latte e suoi derivati.
Un tentativo, quest’ultimo, che invece non deve essere fatto quando si soffre di un altro comune tipo di intolleranza, quella al glutine, responsabile della celiachia. È una malattia frequente, spesso non riconosciuta, e che, diversamente dall’intolleranza al lattosio, dipende da fattori immunitari, per quanto diversi da quelli tipicamente allergici. Per chi ne soffre sono banditi pane, pasta e tutti gli alimenti a base di frumento e contenenti anche minime quantità di farina. In questo caso l’unica cura è quella di evitare qualunque contatto anche minimo con gli alimenti proibiti. Ciò, fino a qualche anno fa, limitava molto la qualità di vita dei celiaci, oggi molto migliorata: nei ristoranti si possono avere menu «sicuri»; gli stessi alimenti privi di glutine, un tempo reperibili solo in farmacia, oggi sono in tutti i supermercati. «Sono queste le uniche vere forme di intolleranza alimentare – precisa Schroeder –. Tutte le altre, divenute di moda negli ultimi anni e diagnosticate nei modi più strani, sono prive di qualunque fondamento scientifico».
Lo ribadiscono anche le Linee guida statunitensi, stilando un elenco di esami da non eseguire, proprio perché possono portare a eliminare dalla dieta cibi che invece non fanno alcun male. Test per il rilascio dell’istamina e l’attivazione dei basofili, stimolazione dei linfociti, termografia facciale, analisi dei succhi gastrici, provocazione con l’allergene in endoscopia, analisi del capello, kinesiologia applicata, test di provocazione-neutralizzazione, di citotossicità, Vega test e così via pretendono di trovare nei cibi la causa di ogni forma di malessere fisico o emotivo. In realtà rischiano solo di condizionare la vita di ogni giorno creando inutili ansie, quando non causano deficit nutrizionali, soprattutto se ci si affida alla loro valutazione per escludere un lungo elenco di alimenti. I rischi sono maggiori nei più piccoli, nei ragazzi in crescita o nelle donne in gravidanza, ma anche gli adulti sani corrono il pericolo di privarsi inutilmente dei leciti piaceri della tavola.