All’ombra dei muri del Medio Oriente
Il punto di partenza della nostra rassegna mediorientale è il Cairo, in Egitto. A due anni dall’anniversario della «Primavera araba», le speranze sembrano già crollate e il Paese rischia il caos. Perché? La nuova costituzione del 2012 è stata approvata nel dicembre scorso con il 64 per cento dei voti, ma solo dal 33 per cento dei possibili elettori. Quindi da una minoranza abbastanza esigua, trattandosi di un documento fondamentale. In pratica, l’hanno approvata solo i seguaci dei «Fratelli musulmani» e dei fondamentalisti salafiti del partito al-Nur. L’articolo 2 fa dell’islam la «religione di stato», con le norme che derivano dalla sharia come «fonte principale di legislazione».
È vero che l’articolo 3 tutela le minoranze religiose, citando in particolare le altre due «religioni del libro», cristiani ed ebrei, ma l’articolo 4 ribadisce un controllo religioso sull’interpretazione della sharia attraverso l’Università islamica di al-Azhar del Cairo, anziché della Corte suprema di Stato.
Vincendo le elezioni del 2011-2012, il braccio politico dei «Fratelli musulmani» aveva dichiarato di volersi ispirare alla Turchia laica piuttosto che all’Iran della legge islamica, ma ora i dubbi si moltiplicano.
Un’attenta ed esperta osservatrice delle vicende politiche locali ci rivela che il presidente Morsi e gli altri dirigenti dei «Fratelli musulmani» usano un linguaggio diverso a seconda che si rivolgano a interlocutori occidentali oppure alle masse arabe: moderato nel primo caso, infiammato e predicatorio nel secondo. L’Egitto sembra andare verso un nuovo scontro prolungato nelle piazze, con numerosi morti e feriti. E sul Paese si allunga un’altra volta l’ombra dei militari. Morsi, che li aveva allontanati, ora pare volerli di nuovo associare, per puntellare il suo traballante potere.
Siria, interminabile guerra civile
Il secondo luogo è Damasco, con la Siria. Qui l’anniversario, purtroppo, riguarda i due anni di guerra civile. Si calcolano 60 mila morti e 700 mila profughi. Il dittatore Assad è uno degli ultimi raìs (capo carismatico) del mondo arabo incollato al potere, che non vuole assolutamente mollare. Non solo l’Occidente, ma l’Onu – anche attraverso il suo inviato Lakhdar Brahimi – e la Lega araba hanno ripetutamente chiesto ad Assad di farsi da parte, impegnandosi a trovargli una terra d’esilio dorato. Tuttavia anche di recente, il 6 gennaio, in uno dei suoi rari interventi pubblici, Bashar al-Assad ha ribadito di volere essere lui in persona a guidare il passaggio di regime.
Sembra così caduta la speranza di metter fine alla «carneficina siriana» trovando una soluzione simile a quella dello Yemen, dove il raìs Saleh, non senza sanguinosi scontri, ha infine accettato nel 2011 di lasciare le redini del governo.
La Siria è un Paese composito, dove accanto a una maggioranza musulmana-sunnita convive una minoranza musulmano-aluita e cristiana. Anche per questo, l’unica strada per pacificare il Paese appare quella del dialogo, un processo che non può iniziare se il dittatore-raìs non cessa la sanguinosa repressione e non si fa da parte. Accetterà infine o sarà necessario un più diretto intervento della comunità internazionale? Certo, la drammatica condizione dei cittadini siriani non può, non deve diventare una tragica situazione di «normalità». La comunità internazionale non può, non deve tollerare.
La pallida speranza di pace in Israele
Sia l’Egitto sia la Siria confinano con Israele – lungo il confine con la Siria il governo israeliano si appresta a elevare un nuovo «muro» lungo quasi 60 chilometri – e questo è il terzo e forse più importante «nodo» che occorre affrontare.
Le recenti elezioni israeliane hanno confermato al primo posto il premier uscente Benjamin Netanyahu, che guida una coalizione nazionalista tra il Likud e Yisrael Beytenu, partito votato soprattutto dagli ebrei immigrati dalla Russia e che ha a capo il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman.
Tuttavia, Netanyahu ha avuto meno voti di quelli attesi, segno di un malessere degli elettori verso la politica condotta dal suo governo, soprattutto sul piano interno, ed è incalzato da vicino dai centristi con il popolare giornalista televisivo Yair Lapid, che è la sorpresa di questa tornata. Il parlamento israeliano, la Knesset, assomiglierà almeno in parte al nostro, dove abbondano i partiti mentre gruppi e gruppetti si moltiplicano, così che non sarà facile trovare una forte maggioranza stabile.
Netanyahu, 64 anni, detto «Bibi» dagli amici, ha avuto un’«educazione politica» statunitense, ma in patria è considerato «un falco» e i suoi rapporti con Barack Obama sono sempre stati freddi. Obama non è affatto amato dalla destra israeliana, che lo chiama con disprezzo col suo secondo nome dalle assonanze islamiche – e mai citato altrove – «Hussein». Netanyahu, all’Onu il 27 settembre 2012 di fronte all’Assemblea riunita in seduta plenaria, con uno spettacolare intervento ha mostrato un grafico col profilo di una bomba – l’atomica che l’Iran starebbe costruendo –, quindi ha estratto un lapis rosso e tracciato una linea sulla scritta «90 per cento», a indicare a che punto, secondo fonti israeliane, è arrivato il programma di arricchimento dell’uranio. È chiara la tentazione di colpire i siti atomici iraniani, ma sembra difficile che sia pure un «falco» come Netanyahu possa realizzarla, ora che Barack Obama, Premio Nobel per la pace, è stato riconfermato presidente degli Stati Uniti. Israele poco può fare senza l’alleanza con gli Usa che gli forniscono una parte delle sofisticatissime batterie anti-missili schierate al confine con la striscia di Gaza a formare la linea chiamata «cupola d’acciaio» e aiuti militari ed economici che equivalgono, per il solo Israele, a quanto gli Stati Uniti stanziano in un anno per l’intero continente africano. Ecco, dunque, al di là dei risultati delle elezioni israeliane, affacciarsi una pallida speranza di pace.
E Obama che farà?
La tregua, per ora, tiene. Il riferimento è alla tregua propiziata dal presidente egiziano Morsi con la striscia di Gaza (chiamata hudna dagli arabi), sotto il controllo di Hamas, ovvero la filiale palestinese ed estremista dei «Fratelli musulmani». Nell’altra parte della Palestina araba, controllata invece dall’Autorità nazionale palestinese di al-Fatah, il moderato Abu Mazen, suo presidente, ha giocato una carta politica importante facendo approvare dall’Onu il passaggio della Palestina araba dallo statuto di semplice osservatore a quello di «stato non membro». Non si tratta solo di una formalità, perché apre le porte alle «agenzie specializzate», e ora si deve parlare, per Gaza e Cisgiordania, non più di «territori occupati» ma di «Stati occupati». Intanto le relazioni tra i due gruppi rivali palestinesi stanno migliorando.
Quattro anni fa, il 4 giugno 2009, un Barack Obama di fresca nomina aveva pronunciato un discorso memorabile di fronte agli studenti dell’università del Cairo. Aveva parlato di un «nuovo inizio tra gli Stati Uniti e i musulmani nel mondo, basato sul mutuo interesse e sul mutuo rispetto. E sulla verità». Come talvolta capita al presidente americano, ai bei discorsi «kennediani» è poi seguito assai poco. Ora, quindi, si attende finalmente una sua iniziativa politica molto decisa e chiara in direzione della pace. Mai come oggi, e non ci stanchiamo di ripeterlo di fronte a tanti sbagli e fallimenti, un’iniziativa concreta di pace, sostenuta dagli Stati Uniti e dalla nostra Europa, appare indispensabile per dare un’indicazione tangibile e forte a un Medio Oriente scosso da conflitti (la rivolta popolare contro il governo siriano) a da movimenti (l’evoluzione contraddittoria delle «Primavere arabe»). E per riavviare le trattative tra israeliani e palestinesi, nodo da troppi decenni irrisolto. I tempi sono oramai più che largamente scaduti.