Amnesty International: la scelta di Kate

A colloquio con Kate Allen, direttrice della sezione britannica di Amnesty, organizzazione internazionale che si batte in difesa dei diritti umani nel mondo.
24 Ottobre 2006 | di

Kate Allen dirige, dal 2000, la sezione britannica di Amnesty International, una tra le più grandi dell’Organizzazione fondata nel 1961 – dall’avvocato cattolico inglese Peter Benenson – per la difesa dei diritti umani, in particolare dei detenuti politici. Nel 1977 ha ricevuto il Nobel per la pace e nel 1978 si è guadagnata il Premio delle Nazioni Unite per i diritti umani.

Msa. Com’è approdata ad Amnesty International?
Kate Allen. Da sei anni sono direttrice della sezione britannica di Amnesty International. Prima lavoravo presso il «Refugee Council» (Ufficio per i rifugiati) che si occupa dell’accoglienza e del sostegno a quanti chiedono asilo politico in Gran Bretagna. Ho scelto quest’altro impegno perché Amnesty è un’organizzazione che cerca davvero di aiutare le persone. In Gran Bretagna Amnesty conta 270 mila tra iscritti e sostenitori, e le nostre attività hanno un forte impatto sociale. Sono molto contenta di lavorare per questa organizzazione.

Amnesty International è molto conosciuta, ma di che cosa si occupa esattamente?

Lo scopo principale di Amnesty è di promuovere e difendere i diritti umani. Noi diamo la possibilità a chiunque lo desideri di fare qualcosa, in forma organizzata, in questo ambito. Per avviare e sostenere le nostre attività abbiamo bisogno di iscritti, che coinvolgiamo in ogni nostra iniziativa. Sosteniamo la causa di singoli individui o di gruppi, i cui diritti siano minacciati o calpestati. In quarantacinque anni di vita Amnesty ha perorato la causa di oltre cinquantamila persone, delle quali possiamo esibire nome e cognome. Alcune erano nel braccio della morte, altre rinchiuse nelle prigioni, torturate o minacciate di tortura e la loro unica colpa era di reclamare, in modo del tutto pacifico, per sé e per gli altri, quei diritti fondamentali che nessuno può togliere. Attualmente stiamo conducendo due campagne internazionali. Una è rivolta a chiedere un Trattato sul commercio delle armi. Ogni minuto una persona muore uccisa da un’arma. Il commercio di armi avviene fuori da ogni controllo, e questo può essere effettuato in modo efficace solo agendo a livello internazionale. Sono contenta che il nostro governo abbia dato tutto il suo appoggio alla campagna e stia facendo pressione perché il Trattato internazionale sul commercio delle armi veda la luce. Ci auguriamo che questo possa avvenire nei prossimi anni.

L’altra campagna si chiama, Stop Violence Against Women («Mai più violenza sulle donne»). Le statistiche sulla violenza alle donne riferiscono dati sconcertanti, e cioè che una donna su tre nel mondo ha già subito o subirà una qualche forma di violenza. Noi cercheremo di contra-stare il fenomeno anzitutto parlandone, perché il problema è tenuto nascosto.

Ci può dire qualcosa di più preciso sulla violenza alle donne?
Solo in Gran Bretagna cinquantamila donne all’anno subiscono violenza, e due ogni settimana muoiono a causa delle violenze patite tra le mura domestiche. Il nostro governo sta prendendo delle buone iniziative, anche se manca una strategia globale coerente, che dovrebbe avere, secondo noi, come punto di partenza l’educazione al rispetto reciproco sin dalle scuole elementari e superiori. A livello internazionale, stiamo richiamando l’attenzione sul problema dell’accesso ai servizi sanitari per le donne del Ruanda. In questo Paese, teatro di un terrificante genocidio, lo sconcertante uso dello stupro ha diffuso in modo esponenziale il virus Hiv (Aids). Abbiamo inoltre puntato i fari su quanto sta avvenendo nella Repubblica Democratica del Congo, in Turchia e in molte altre parti del mondo.

La Chiesa e il mondo cattolico, che hanno sempre sostenuto Amnesty, sono molto preoccupati per la posizione che l’Organizzazione vorrebbe prendere riguardo all’aborto, cioè di inserirlo tra i «diritti umani» per le donne. Se questo dovesse accadere, Amnesty potrebbe vivere una dolorosa spaccatura. Perché vi siete impegnati in questa proposta molto discutibile?

La questione dell’aborto è molto complessa, e noi di certo non vogliamo allontanare chi ci sostiene. Tuttavia non possiamo fuggire da questioni importanti come questa. Sia chi è favorevole all’interruzione volontaria della gravidanza, sia chi è contrario invoca il rispetto dei diritti umani a sostegno delle proprie vedute. Per noi è naturale confrontarci su questo problema. Il dibattito coinvolgerà tutti i membri di Amnesty del Regno Unito e delle sezioni di altri settanta Paesi nel mondo. La decisione finale sarà presa dai rappresentanti dei nostri 2 milioni e oltre di membri nel «Parlamento» democratico di Amnesty, l’International Council Meeting.

Amnesty International si sta battendo senza risparmio per il rilascio dei cosiddetti «prigionieri di coscienza». Chi sono?

I prigionieri di coscienza sono coloro che vengono perseguitati per la loro attività, svolta in modo pacifico, in difesa dei diritti dell’uomo. Amnesty raccoglie le loro storie e le divulga in tutto il mondo. Qualche tempo fa ero in Messico e ho incontrato il generale José Gallardo che era stato imprigionato dal regime messicano. Il generale era un ufficiale di alto rango dell’esercito messicano che aveva osato denunciare alcune violazioni dei diritti umani nell’esercito. Per ritorsione, erano state costruite false accuse contro di lui. Arrestato e processato, doveva scontare una condanna di trent’anni. Ci siamo battuti per il suo rilascio, visto che la sua unica colpa era quella di aver messo a nudo alcune ingiustizie. Quando l’ho incontrato, mi ha fatto vedere le cinquantamila tra cartoline e lettere che i soci di Amnesty gli avevano inviato da tutto il mondo.

A seguito della campagna che ha coinvolto tutte le nostre sezioni, il generale è stato rilasciato dopo otto anni di carcere. Ha potuto così abbracciare la figlia, nata appena dopo la sentenza, e riunirsi con il resto della famiglia.

Come valuta la richiesta della Turchia di far parte dell’Unione europea, vista la sua scarsa attenzione ai diritti umani?

La Dichiarazione di Copenhagen, che deve essere sottoscritta dai Paesi che vogliono entrare nell’Unione europea, è molto precisa su quel che riguarda il rispetto dei diritti umani. Credo che la Turchia abbia la possibilità di fare grandi progressi in questo settore. Il governo turco, per esempio, ha abolito la pena di morte. Tuttavia noi di Amnesty aspettiamo di vedere il riconoscimento di tutti i diritti fondamentali. Vigiliamo perché tutti i Paesi che vogliono entrare in Europa si adeguino effettivamente alla Dichiarazione di Copenhagen. Per quanto riguarda la Turchia, sono di certo necessari ulteriori progressi, oltre a quelli già avvenuti.

Quali Paesi detengono il record delle violazioni dei diritti umani?
La lista è mobile. Attualmente siamo molto preoccupati per quanto sta succedendo nel Sudan, dove le scorribande delle milizie Janjaweed, unitamente a quelle del governo sudanese, hanno provocato due milioni di profughi e 30 mila morti. Inoltre, si è usato lo stupro come strumento di guerra: ne sono rimaste vittime anche bambine di soli otto anni e donne di ottanta. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, su nostra sollecitazione, ha deciso di rinviare il Sudan, per questi crimini, alla Corte penale internazionale. Siamo contenti che gli Stati Uniti, nonostante la loro opposizione alla Corte internazionale, non abbiano posto il veto a questa risoluzione. Ci inquieta anche la situazione nella Repubblica Democratica del Congo, dove negli ultimi otto anni sono morte quattro milioni di persone, e dove le donne stanno subendo ogni sorta di violenza. Eppure di questa immane tragedia i media riferiscono pochissimo.

Perché i media tacciono sulle tante ingiustizie che si compiono nel mondo?
Il tema meriterebbe un adeguato approfondimento. Mi pare che adesso, almeno qui in Gran Bretagna, se ne parli di più rispetto al passato. Probabilmente è stata la tragedia dell’11 settembre a costringere i media a guardare un po’ di più quanto sta accadendo nel resto del mondo, e un po’ meno alle faccende di casa nostra. C’è però un aspetto positivo: sempre più persone si interessano dei diritti umani e vogliono fare qualcosa per essi. Forse è proprio questa la ragione per cui Amnesty riscuote un crescente consenso, soprattutto tra i giovani.

I governi riescono a tenere desta l’attenzione solo per spazi di tempo limitati. Noi di Amnesty facciamo di tutto perché le ingiustizie non vengano dimenticate, non solo nei media a raggio nazionale, ma anche in quelli locali. I nostri iscritti sono molto bravi nel fare questo.

Molte persone nel mondo sono in carcere per la loro fede religiosa, in quali Paesi in modo particolare?

Purtroppo la persecuzione religiosa è ancora assai diffusa. Un Paese che viene immediatamente alla mente è la Cina, dove molte religioni sono perseguitate, compreso il cristianesimo. Nella regione del Xinjiang i musulmani sono accusati di terrorismo e di avere mire separatiste, mentre in realtà vengono imprigionati per la loro fede. Ma la Cina non è il solo Paese che perseguita i credenti.



Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017