«Anche in Italia si può fare ricerca»
Pomeriggio inoltrato. Il sole del tramonto entra dalle ampie finestre dell'Istituto Mendel e illumina i mobili - semplici e moderni - della stanza. C'è un grande silenzio nei corridoi, un silenzio quasi conventuale. Ma al microscopio non ci sono monaci, c'è una giovane ricercatrice, Enza Maria Valente, alla quale si deve una scoperta che riguarda il Parkinson giovanile, più esattamente un gene che è stato battezzato Pink 1.
Msa. Dottoressa che sorpresa. Ma come, si fa ricerca anche in Italia?
Valente. Perché, ne dubita?
Sento dire che per fare ricerca bisogna andare in America...
No, guardi, malgrado le tante difficoltà del nostro Paese, ci sono ancora buoni laboratori.
Ma la gente non ci crede. Dove stanno?
Un po' dappertutto. Ce ne sono di ottimi nell'Italia settentrionale, a Milano per esempio, ma anche qualcuno al Sud: mi viene in mente Catanzaro dove esiste un ottimo polo del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche).
Ma paga fare il ricercatore da noi? Voglio dire: si hanno soddisfazioni, notorietà internazionale, successo?
Dipende. Ci sono università o laboratori dove il ricercatore è inserito e può lavorare con tranquillità , con uno stipendio certo ma tutto sommato modesto. Parlo qui di una minoranza fortunata che senza dubbio ha le sue soddisfazioni e può anche avere notorietà all'estero. La maggioranza dei ricercatori, però, deve affrontare tutta una serie di problemi legati sostanzialmente alla difficoltà di trovare i finanziamenti. Se non si fa ricerca ad altissimo livello è difficile trovare fondi europei o internazionali. Il ricercatore non può quindi contare su un impegno a lungo termine che gli dia una qualche sicurezza economica per il futuro, e questo fa sì che la maggioranza dei ricercatori viva una situazione precaria.
Allora è tutta una questione di soldi?
Beh, i soldi innescano un circolo vizioso, per cui il denaro porta altro denaro. Voglio dire che i fondi danno la possibilità di produrre tecnologie d'avanguardia, di produrre brevetti che a loro volta richiamano soldi e investimenti. Per di più, un centro superspecialistico di grande prestigio e con larghezza di mezzi dà al ricercatore una stabilità psicologica e finanziaria, gli toglie quel senso di provvisorietà che esiste in Italia. Gli istituti che dispongono di grandi fondi migliorano di anno in anno la ricerca e possono offrire anche all'ultimo arrivato un retroterra di esperienza che lo fa sentire motivato e gli offre tutti gli strumenti della più sofisticata tecnologia per progredire, per realizzarsi. Pensi cosa significa lavorare in un grande centro dove magari ogni mattina si prende il caffè con il premio Nobel che lavora sullo stesso piano. Se c'è una difficoltà , un dubbio, anche il giovane ricercatore si sente sostenuto dalla collaborazione di illustri colleghi che possono aiutarlo. Ecco perché nella ricerca il denaro oggi è tutto. O quasi tutto.
E allora si spiega perché molti partono per gli Stati Uniti?
Certo, si capisce. Ma anche partire per gli Stati Uniti presenta dei problemi. Prima di tutto, si tratta di lasciare l'Italia, gli amici, gli affetti e di andarsene, straniero in terra straniera, senza sapere se un giorno sarà possibile rientrare. Se uno è deciso a dare un taglio alla propria vita, si trova in una situazione ideale e gli verrà offerto in America uno stipendio che è dieci o venti volte quello che potrebbe percepire in Italia. Da questo punto di vista, gli Stati Uniti rappresentano una soluzione ideale - soldi e carriera - ma si deve mettere in conto che non sarà facile tornare.
Ma lei capisce quelli che partono?
Capisco quelli che partono anche se mi accorgo dei loro sacrifici e delle loro rinunce. Che fare, però, quando uno è precario, quando deve campare su borse di studio che oggi ci sono e domani no, su fondi che fluttuano, che diminuiscono o che addirittura svaniscono per cui bisogna fermare una ricerca perché mancano i soldi, perché magari non ci sono in cassa 500 euro per un reagente? Ecco, allora si può comprendere perché uno faccia la valigia e trasmigri negli Stati Uniti dicendo a se stesso che un giorno ritornerà .
Ma c'è qualcuno che riesce a tornare?
Purtroppo ritornano in pochi. I posti per ricercatori nelle università non sono molti, e sono gestiti, come dire?, all'italiana. Torna chi viene richiamato per ricoprire un ruolo preciso. Ma è difficile che venga chiamato un ricercatore solamente per i suoi meriti. Il nostro non è un Paese meritocratico. Il risultato è che molti restano all'estero, chi volentieri chi a malincuore.
Che differenza c'è fra un ricercatore e una ricercatrice?
Sostanzialmente nessuna.
Ma non crede che per una donna questo lavoro sia più difficile?
Tutto dipende dalle scelte che uno fa. C'è gente che sceglie la carriera, altra che sceglie la famiglia, e c'è chi riesce a coniugare con una certa fatica figli e lavoro. Le situazioni variano da persona e persona.
Lei quante ore passa in laboratorio?
Non sono sposata, non ho famiglia e quindi mi posso permettere degli orari un po' pesanti. In genere comincio alle nove di mattina e vado via verso le otto di sera. Non trovo molto tempo per stare con gli amici e questo mi pesa, ma trovo il lavoro entusiasmante. Certo, se una ha dei figli è tutto diverso.
Non abbiamo ancora parlato della sua scoperta. Possiamo farlo in termini semplici e comprensibili?
Ci provo. In poche parole, si tratta di questo: noi - intendo dire il gruppo che dirigo - abbiamo identificato un gene responsabile di una forma del Parkinson giovanile. Per giovanile intendo un Parkinson che colpisca sotto i cinquant'anni, a trenta, a quarant'anni. Abbiamo scoperto il gene - chiamato Pink1 - che produce una proteina. Se questo gene è alterato e quindi dà vita a una proteina anomala, questo porta poi alla malattia di Parkinson. Si è visto che in alcune famiglie esiste una correlazione fra chi aveva la malattia e anomalie genetiche.
Ma questa scoperta riguarda anche il modo di cura?
No, non parliamo ancora di cura. Prima di parlare di cura bisogna capire bene i meccanismi di questa proteina, e questo è un processo lungo e difficile.
Come siete organizzati in questo Istituto Mendel?
Siamo suddivisi per gruppi di ricerca, e ognuno si occupa di un settore diverso. Io coordino il gruppo di neurogenetica. Fortunatamente siamo sganciati dall'università e viviamo, per dir così, in un'isola felice.
Ma lei non sente il richiamo dell'America?
No, ho scelto l'Italia anche se di questo Paese capisco le virtù e soprattutto i vizi. Creperei di nostalgia se dovessi lavorare, per esempio, a San Diego.
Quando incontro qualche collega che è partito, avverto sempre odore di nostalgia, perché ognuno ha le proprie radici. Dobbiamo augurarci che anche nel nostro Paese la ricerca abbia spazio.
Ma lei, si sente ottimista o pessimista?
Speriamo nel futuro.