Annigoni al Santo, la ricerca della fede

Nel centenario dalla nascita del grande pittore del ’900, ripercorriamo le tappe della sua presenza in Basilica attraverso le sue sette opere e il ricordo dell’allora rettore, padre Angelico Poppi.
25 Giugno 2010 | di



Sette tappe, sette quadri

L’itinerario annigoniano in Basilica interpella Massimiliano Kolbe, Antonio di Padova, Luca Belludi, il figliol prodigo; sonda le posizioni dei «cattivi» Giuda ed Ezzelino da Romano; chiede conto dei pensieri degli apostoli, dei cittadini di Rimini e di Camposampiero. E, in definitiva, suscita interrogativi in chiunque fissi i singoli quadri, inquieti come lo era il loro autore, uomo in ricerca, mai accomodante nelle scelte figurative, tanto che l’osservatore non si sente blandito bensì provocato a prendere posizione. È il caso della prima opera di Annigoni al Santo, targata 1979: la pala per l’altare dedicato a san Massimiliano Maria Kolbe, il primo entrando in Basilica sulla sinistra. Nel buio di Auschwitz, da una larva d’uomo martoriata s’innalza l’anima del frate polacco, coronata con rose rosse da Maria. Così l’autore spiegava il suo approccio all’opera: «Questa accettazione d’una morte orribile e tremenda, questa sopportazione del martirio (…) ha qualcosa di così grandioso e di così commovente che nessuno, credo, possa restare indifferente. Quindi dipinsi la pala con molto impegno e con molta dedizione».

E pensare che un ritardo nelle comunicazioni aveva messo a repentaglio l’approvazione dell’opera, come racconta dettagliatamente padre Angelico Poppi, allora rettore della Basilica. Invece quella prima prova aprì definitivamente le porte della casa di sant’Antonio ad Annigoni. L’occasione per continuare la collaborazione fu il 750esimo anniversario della morte del Santo, nel 1981. Tema dell’evento era Evangelizare pauperibus misit me («Mi ha mandato a evangelizzare i poveri»), che poneva l’attenzione sull’Antonio annunciatore della buona novella e amico degli ultimi. Il risultato dell’elaborazione artistica di Annigoni su questo soggetto lo si apprezza nella Cappella di santa Caterina, meglio nota come Cappella delle benedizioni, l’ultima dell’ambulacro, vicina alla porta laterale di accesso ai chiostri. Oggi il pellegrino vi vede tre opere firmate dal maestro fiorentino: a sinistra, Antonio a Rimini, che, di fronte all’indifferenza e all’apatia del popolo, alle sue spalle in tutt’altro affaccendato, si rivolge ai pesci. La figura del Santo si erge al centro, sullo scoglio, ed è l’unico punto di luce in una composizione altrimenti dominata dal grigiore dello sfacelo: gli occhi ispirati che guardano il cielo e la levità del gesto dicono la fiducia ardente nella forza della buona novella. Non a caso, in alto, compare il simbolo del Vangelo e della fiamma. Nell’affresco di fronte, invece, sono raffigurati il Bambino Gesù e il giglio, a commento del drammatico incontro tra Antonio e il tiranno Ezzelino da Romano, realizzato nel 1982. Era appena terminata la seconda ricognizione del corpo del Santo, tant’è che questo importante evento avrebbe anche potuto essere ricordato nel quadro, come racconta padre Poppi: «Avevo proposto al maestro di cambiare il soggetto di questo dipinto, ma Annigoni aveva già maturato l’idea per la seconda composizione, quindi non insistetti». Ed ecco così lo scontro tra ragion di stato e ragioni della fede. Per la storia Antonio è sconfitto, non è riuscito a liberare i prigionieri, raffigurati in monocromo alle spalle del Santo, in pose tragiche. Ma la resa stilistica di Annigoni ci dice che il vero sconfitto è proprio il tiranno, che si torce, teso e spaventoso, sul suo scranno. Commentava il maestro: «Quello che ho cercato di mettere nel volto di Ezzelino è questa caparbietà, questa inesorabilità nel voler essere perverso, cattivo». Mentre in sant’Antonio c’è «anche una grande tristezza, che comprende la perdizione di Ezzelino. È sconfitto ma è, d’altronde, ancora vincitore in questa capacità immensa di amore».

Nel 1983 fu la volta del grande crocifisso centrale, opera che non era nei piani iniziali, ma che donò unità d’insieme alla Cappella delle benedizioni. Da questo punto in poi si inserisce un elemento decisivo per la storia di Annigoni al Santo: non è più la committenza, cioè i frati, a coinvolgere l’artista, ma è il maestro stesso ad alzare l’asticella del suo impegno in Basilica, tanto da scegliere, in definitiva, questo santo luogo come sede del suo «canto del cigno». Influirono certo l’ottimo clima che si era creato con l’intero gruppo di lavoro e con la fraternità del Santo, testimoniati dal fitto carteggio tra Annigoni e Angelico Poppi e da alcune interviste rilasciate dall’artista, come quella in cui affermò: «Col Santo, ormai, sono di casa». Esemplare in tal senso è la genesi dell’affresco dell’ultima cena. La scintilla scoccò al termine dei lavori per il crocifisso, durante il pranzo di saluto offerto dai frati nel loro refettorio. Racconta padre Poppi: «Verso la fine del pranzo, con lo sguardo fisso sulla parete di fronte, Annigoni mi disse: “Vedo lì in fondo delle sagome, delle ombre, come dei profili di roccia…”. Mi accennò allora alla possibilità di metterci un’ultima cena». Detto, fatto: nel 1984 prende forma il cenacolo, con Cristo che vive la solitudine dell’incomprensione, dopo aver pronunciato le fatidiche parole: «Uno di voi mi tradirà». Questa frase ha «la violenza di un’esplosione dirompente su tutto il gruppo degli apostoli – commentò in merito il maestro –. In un certo senso, direi, si spezza il filo che li univa all’insegnamento di Gesù, e ognuno, rotta l’unità che si era creata, ritorna alla ancor fragile propria individua­lità».

Nel 1985 fu la volta del grande affresco della predicazione di Antonio sul noce, sulla controfacciata della Basilica, realizzato per il settimo centenario della morte del beato Luca Belludi, che è raffigurato ai piedi dell’albero. È la realizzazione più impegnativa per estensione (misura quasi 6 metri per 9), e Annigoni ha ormai 75 anni. Il pensiero della fine diventa un tutt’uno col suo lavoro. In un’intervista spiega: «Se sant’Antonio vivesse oggi (…) ricomincerebbe a predicare ai pesci, per vedere di suscitare qualche dubbio, qualche preoccupazione. Voglio dire che oggi, sotto il profilo spirituale, non incontrerebbe un terreno molto facile, come del resto non lo incontrò neanche in quei tempi. Questa lotta è una lotta che si è perpetuata e che si perpetuerà nel tempo, sempre. Perché, in fondo, è la lotta che anche ognuno di noi può trovarsi a combattere, se a un certo punto, di fronte a quel famoso fatto che è la morte, comincia a preoccuparsi e a pensare di essere stato soltanto una nullità passeggera, transitoria, di un attimo su questa terra; e comincia a meditare e a lottare per conquistare un barlume di fede». Tempo, insomma, di bilanci. Che l’artista fa, nell’intervista considerata il suo testamento spirituale: «Ho trascorso gran parte degli ultimi sette anni a dipingere oltre 200 metri nella Basilica di sant’Antonio. In questo periodo ho iniziato quel complesso procedimento per cui si può giungere alla ferma adesione a una verità e a un ideale. (…) Da tempo desidero avere una fede precisa e sicura, che, purtroppo, ancora non posso affermare di possedere. Del resto, sono convinto che sia un’aspirazione condivisa da molte persone: raggiungere la certezza. Ecco, diciamo che di recente questa aspirazione è diventata per me un preciso desiderio di conquistare la fede. Dipingere santi e storie di santi è forse il modo per cercare di guadagnarmi un pezzetto di paradiso».

Ed ecco allora il suo «canto del cigno», come lo chiamava Annigoni stesso, e che per certi versi è una risposta al lungo interrogativo sulla fede. È il grande affresco del figliol prodigo, nella nuova penitenzeria della Basilica, realizzato nonostante le molte difficoltà, burocratiche e tecniche. «Io avevo terminato – ricorda padre Angelico – il mio mandato novennale come rettore della Basilica, ma continuai a sostenere l’amico Annigoni affinché riuscisse a compiere l’opera al Santo. Non a caso mi chiamava “il grande alleato”». Nel 1987 fu isolata la parete di fondo di quella che sarebbe diventata la nuova penitenzieria, inaugurata solo nel 2000. Qui l’artista dipinse la parabola del padre misericordioso, che si fa avanti per abbracciare sulla soglia di casa il figlio, «nel quale è da riconoscere lo stesso Annigoni – sostiene padre Angelico –. Non a caso, è raffigurato anziano».

Pietro Annigoni ritoccò il dipinto il 18 aprile del 1988. Doveva poi tornare a Padova in novembre, per le ultime verifiche, ma non fu possibile. Morì la sera del 28 ottobre, per un blocco renale. Conclude padre Poppi: «Aveva ormai varcato quell’ingresso, ancora misterioso e semibuio nell’affresco, che immetteva nella casa del Padre, ma che aveva ricercato con tenacia in tanti anni della sua vita».

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017