Antonio, le attese di Dio e degli uomini
Il 15 febbraio è una data particolarmente cara a tutta la famiglia antoniana. Si tratta, come ben sanno i devoti del Santo, della festa della Lingua, che si collega alla vicenda storica del ritrovamento - da parte dell'allora generale dell'Ordine francescano san Bonaventura, nel 1263, durante lo svolgimento della prima ricognizione delle spoglie mortali - della lingua incorrotta di sant'Antonio. Questi fu in vita instancabile annunciatore della Parola che salva, una Parola che, con dedizione e senza mai risparmiarsi, dispensò agli uomini e alle donne del suo tempo.
Ciò avvenne in diversi momenti e in molte regioni: di fronte a folle cristiane da convertire attraverso una predicazione prevalentemente penitenziale orientata ai sacramenti; se non di fronte almeno in riferimento a prelati che, con il loro comportamento immorale e corrotto, screditavano la Chiesa; di fronte a eretici da riportare con decisione e dolcezza alla retta fede; di fronte, almeno nel desiderio, ai «saraceni», come allora venivano chiamati i musulmani. Non va infatti dimenticato che lo slancio missionario è da collocare alle radici della vocazione francescana di Antonio, anche se poi il Signore realizzò questo ardente desiderio in tempi e modi imprevisti e del tutto originali.
C'è da dire, però, che agli inizi del XIII secolo si viveva in un mondo ritenuto evangelizzato, anzi plasmato dal Vangelo, nella cosiddetta Europa cristiana, e si pensavano come sostanzialmente coincidenti i confini della società civile e quelli della comunità cristiana. Appartiene a san Tommaso (1221-1274) questa espressione: La chiesa è edificata in tutto il mondo. Eppure, in quello che molti identificano come il tempo ideale della diffusione e del radicamento della fede nelle coscienze e della sua determinante incidenza nelle stesse strutture sociali e politiche, non era minore di oggi la necessità dell'annuncio. Così fa intendere Giovanni Paolo II quando scrive: «L'urgenza della predicazione percorre tutti i Sermones che sant'Antonio ci ha lasciato.[...] Fedele discepolo di Francesco d'Assisi, Antonio ha lasciato l'esempio di un impegno assiduo nell'evangelizzazione mediante una predicazione indefessa, accompagnata dall'accorata esortazione ad accostarsi ai sacramenti della Chiesa, specialmente a quelli della Riconciliazione e dell'Eucaristia».
Facile dedurre che l'annuncio del Vangelo è vocazione che segna l'identità della Chiesa di ogni tempo, in profondità . Se paradossalmente tutti gli uomini si convertissero al Vangelo, non verrebbe meno la necessità di annunciarlo ancora, di ricominciare sempre da capo con l'avventura della fede.
Oggi gli scenari della Chiesa e del mondo sono tutt'altra cosa rispetto alla stagione medievale, che tra l'altro non va sopravvalutata e tanto meno rimpianta. È bene infatti diffidare quando ci si trova di fronte a lodi esagerate rivolte a un passato mitico, o meglio mitizzato, nel quale si immagina una fede cristallina e una vita cristiana vissuta da tutti nella sua integralità , trovando in questo motivi per denigrare il presente. Molto probabilmente in passato non c'era tutta la fede che si dice ci fosse, così come ai nostri giorni non c'è tutta quell'incredulità che si dice ci sia.
La fame e la sete del Vangelo, il bisogno di riascoltare la Parola che salva restano, oggi come ieri, inalterati. Innanzitutto è la Chiesa ad avere bisogno di sintonizzarsi sempre di nuovo con la buona notizia di cui si fa annunciatrice, e vivendo la «differenza» del Vangelo, inoltre, la comunità cristiana potrà rendere credibile, interessante e coinvolgente la sua predicazione. Anche attraverso predicatori santi, uomini e donne toccati dal Vangelo, capaci di fare in modo che s'incontrino le attese di Dio e le attese degli uomini. Proprio come fece sant'Antonio, annunciatore di un Vangelo frequentato e vissuto, interiorizzato e pregato, e perciò contagioso.