Antonio Preziosi. La radio che ti senti

Con un click, on line, sul telefonino, la radio è uno dei media più moderni e flessibili, che piace agli adulti e conquista i giovani. Antonio Preziosi ci parla dell’emittente che dirige, Radiouno, e di quel nome, Antonio, non casuale.
24 Settembre 2010 | di

Negli anni Settanta cominciavano a imperversare le immagini, e la radio sembrava superata. Dopo un breve declino, però, venne la riscossa, prima con le radio libere e poi con un aggiornamento radicale nello stile e nella professionalità della comunicazione radiofonica. Oggi Radiouno si presenta come vera radio libera, mezzo democratico e plurale, voce calda e colonna sonora (con news in tempo reale) delle nostre giornate. Ce ne parla il direttore, Antonio Preziosi, con la passione di chi ama il suo mestiere e ne ha fatto ragione di vita.
Msa. Sei un giovane direttore, arrivato lontano ma anche partito da lontano. Dove sono le tue radici?
Preziosi. In Basilicata, la mia terra. Poi mi sono laureato a Roma in giurisprudenza e quindi sono andato a Perugia per frequentare il primo master della Scuola di giornalismo radiotelevisivo, quello da cui sono usciti tanti colleghi molto bravi come Giovanni Floris, Monica Maggioni, Gerardo Greco, tutti sfornati da quel primo corso di venticinque persone iper-selezionate, nato da un’intesa tra Rai e Università di Perugia. Questa provenienza rappresenta un po’ il mio fiore all’occhiello.
«Testimoni dei fatti, non protagonisti». Nell’editoriale di insediamento come direttore di Radiouno e del Giornale Radio Rai, poco più di un anno fa, hai ricordato a te stesso e ai tuoi collaboratori questo caposaldo. Perché?
È una delle tentazioni del giornalista quella di sostituirsi ai protagonisti. Il giornalista non è un protagonista dei fatti, ma solo un testimone. A volte ce lo dimentichiamo. Così ho voluto sottolineare quella che deve essere la virtù del giornalista, ovvero l’umiltà. Enzo Biagi diceva che se non sei umile non hai nemmeno la capacità di acquisire e di capire i fatti che racconti. Se parti da un’idea preconcetta, è probabile che sbagli. È come voler fare la radiocronaca di una partita di calcio con la presunzione di essere uno degli undici giocatori, mentre sei solo uno che sta in tribuna e racconta la partita ad altri che non la vedono. Sono convinto che il peccato più grave del giornalista sia la superbia, questa volontà di essere giocatore in campo e non semplice spettatore.
Sei conosciuto come appassionato studioso delle nuove frontiere dell’informazione giornalistica. Come si va configurando la radio del futuro, sulla base delle nuove tecnologie?
Io dico sempre che la radio, pur essendo uno strumento antico, è allo stesso tempo il più moderno, perché più di tutti si presta a cavalcare le nuove tecnologie, qualunque esse siano. Non ascolti la radio soltanto dalla radiolina o dalla macchina, ma anche on line dal computer; la senti attraverso i cellulari e gli mms sonori; la vedi in televisione grazie al satellite. Si tratta quindi di uno strumento incredibilmente moderno e capace di una vitalità insospettata. Ricordo che alla fine degli anni Settanta una canzone diceva: Video killed the radio star («La tv ha ucciso la stella della radio»), ma chi ha decretato questa morte è stato un cattivo profeta, perché in realtà oggi la radio continua a essere un mezzo forte, dinamico e pulito. Direi di più: come ho scritto in un mio libro del 2004, è un mezzo democratico, perché permette un accesso facile, favorisce l’interazione vera e costa pochissimo.
Negli anni Settanta le radio libere erano le altre... Recentemente hai affermato che oggi la vera emittente libera è Radiouno. In che senso?
È vero, lo ribadisco. In parte dipende dalla maggiore disponibilità di mezzi rispetto alle private, che permette di venire incontro meglio alle esigenze della gente. Ma per il resto questo risultato è l’effetto dell’aver cambiato testa. Radiouno non è più l’emittente ingessata e paludata di un tempo: è diventata una radio che crede nell’interazione e nell’accesso degli ascoltatori. Le radio libere di una volta erano quelle che potevi chiamare per fare una dedica personale, e nelle quali si poteva dire un po’ tutto ciò che si voleva. Questo stile è garantito oggi da Radio Rai e Radiouno in particolare: vi si trova l’accessibilità – attraverso telefonate, sms, internet ed e-mail – ma c’è anche la libertà «di testa», proprio perché crediamo alla pluralità delle idee, alla capacità di rappresentare le posizioni con equilibrio e completezza. Velocità, chiarezza e completezza: questi sono i tre ingredienti che fanno la libertà di una radio.
Oltre che libera, giovane: in che modo Radiouno va incontro ai giovani, parla di loro? Come li rende protagonisti?
Noi siamo, per ascolti, la prima radio italiana. Il nostro zoccolo duro di ascoltatori ha oltre sessant’anni. È un pubblico che coccoliamo e vogliamo conservare a lungo, continuando a usare il linguaggio a cui sono abituati, con le nostre trasmissioni storiche e con la nostra informazione. Ma poi ci rivolgiamo anche ai più giovani, ad esempio curando le scelte musicali, rendendo più presenti gli accompagnamenti, puntando su una musica non più di nicchia, con in prima fila i grandi classici italiani e internazionali e le novità. Abbiamo anche infranto qualche tabù: a Radiouno si può finalmente ascoltare Celentano e Mina, i Beatles e i Rolling Stones. Insomma, abbiamo optato per una musica che accompagni l’ascolto, il tappeto – come ho scritto nel mio piano editoriale – su cui camminano le notizie. E poi c’è il linguaggio: veloce, rapido, immediato, chiaro come piace ai giovani, che amano sentirsi informati. Un rapporto del 2010 afferma che la domanda d’informazione nel nostro Paese ormai passa quasi solo attraverso telefonini e internet. La radio, come i telefonini e come internet, è uno strumento discreto, snello, accessibile in maniera molto più praticabile che non, ad esempio, la tv. È un mezzo giovane per i giovani.
Arrivare primi sulla notizia oggi è sempre più difficile. Voi come fate?
Grazie all’agilità del mezzo, a noi basta un telefonino per chiamare, entrare in diretta e raccontare cosa sta succedendo sul momento. Spesso, in questo modo, riusciamo anche ad arrivare prima delle agenzie di informazione.
Sempre più personaggi televisivi sono ingaggiati in programmi radiofonici. È una buona strada?
È una strada buona ma non necessaria: non ci lasciamo abbacinare dalla fama televisiva, ma scegliamo chi può rappresentare un’idea o una novità anche per la radio. Abbiamo sperimentato personaggi che hanno lavorato molto bene con noi: penso a Lorena Bianchetti, una conduttrice tipicamente televisiva che ha mostrato una grande duttilità e capacità di raccontare attraverso la radio. Oppure ad altri volti famosi come Pupo e Simona Ventura, che non hanno portato la tv alla radio, ma hanno saputo interpretare al meglio lo strumento con cui avevano a che fare.
Da dove nasce il tuo amore per la radio? Hai qualche ricordo particolare da raccontarci?
Nasce da una radio privata di una cittadina vicina al mio paese d’origine, Pisticci, dove ho frequentato le scuole medie. Lì aveva sede la Studio P, una delle prime radio libere degli anni Settanta. Un giorno decisi di andare a bussare a quella porta, mi presentai coi miei calzoncini corti e dissi: «Vorrei lavorare per voi». Mi guardarono un po’ male e fui introdotto nella stanza fumosa di un signore con la barba lunga, pieno di giornali, il classico intellettuale libero del tempo, che mi chiese cosa volessi. «Vorrei fare un programma per voi». «Ma al massimo puoi fare una trasmissione per bambini». E così, a dodici anni, realizzai il mio primo programma, in cui mandavo in onda le sigle dei cartoni animati – da Heidi a Remì a Goldrake – e mi raccontavo, di domenica mattina. Le cinquecento lire a settimana di guadagno mi servivano a comprare un settimanale di musica e canzoni, per arricchire la mia cultura radiofonica e musicale. Già all’epoca comunque ero malato di giornalismo: col mio insegnante delle scuole elementari realizzavamo un giornalino mensile, «Il Campanello», per analogia con la campanella della scuola. Questi sono stati i miei inizi un po’ romantici: sugli esiti lascio che siano gli altri a giudicare.
Sull’onda dei ricordi d’infanzia, vuoi raccontarci anche la genesi del tuo nome? La scelta dei tuoi di chiamarti Antonio non è stata casuale.
Sì, posso raccontarlo, non credo di violare segreti familiari. Dopo una prima gravidanza andata male, mia mamma ebbe molte difficoltà ad avere un figlio. Lei mi racconta sempre che ormai, dopo sette anni di tentativi, aveva quasi perso le speranze di rimanere incinta. E così, con la complicità di mia nonna, molto devota di sant’Antonio, decise di affidarsi al Santo facendo questo voto: se le fosse capitato di avere un figlio o una figlia lo avrebbe chiamato Antonio o Antonella. E fu così che nacqui io. Poi andò talmente bene che sono arrivati altri due figli ad allietare la mia famiglia. Quando io nacqui, poi, papà costruì nella facciata della mia casetta a Policoro una specie di edicola votiva, che è ancora visibile: c’è proprio l’immagine di sant’Antonio con un lumino sempre acceso, in ricordo di questa speciale devozione della mia famiglia per il Santo di Padova.
Sei stato a Padova, in Basilica?
Sì, sono venuto in due o tre occasioni. Pur avendo molto viaggiato e fermandomi spesso a visitare chiese e santuari, devo dire che la mia sosta sulla tomba di sant’Antonio è stata un’emozione molto particolare. Soprattutto ricordo bene la prima volta, avvenuta peraltro quando ero già abbastanza adulto. Papà e mamma, da piccolo, mi dicevano sempre che mi avrebbero portato volentieri a Padova, ma erano altri tempi, non c’erano i soldi per andare fino in Veneto dalla Basilicata. L’incontro con sant’Antonio è stato empatico, bello ed emozionante.
 
 
La scheda

Antonio Preziosi, lucano, 43 anni, è dallo scorso anno direttore del Giornale radio Rai e di Radiouno. È anche direttore ad interim di Gr Parlamento, la testata radiofonica di informazione parlamentare della Rai. Laureato in giurisprudenza, ha conseguito il master di giornalismo presso la Scuola di giornalismo radiotelevisivo di Perugia. In qualità di inviato del Giornale radio Rai ha seguito per dieci anni l’attività della Presidenza del Consiglio dei ministri durante i governi Prodi, D’Alema, Amato e Berlusconi.
Ha insegnato Comunicazione politica alla facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università pontificia salesiana di Roma.

È autore di numerosi libri e saggi tra i quali: Giovanni Paolo II, l’uomo, il Papa, il suo messaggio (Fabbri editori 1992); La divulgazione e le sue tecniche (Rusconi 1999); L’informazione giornalistica nell’età tecnologica (Elledici 2002); Comunicare le professioni intellettuali (Spazio RP 2008); Silvio c’è, cronaca di una campagna elettorale (Il Tempo 2008).  Collabora in qualità di docente di giornalismo radiotelevisivo con numerose facoltà universitarie e scuole di giornalismo.
 
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017