Argentina, nunca más!

I militari, guidati dal generale Videla, scatenarono la «guerra sucia» cioè la guerra sporca: il Processo di riorganizzazione nazionale per eliminare ogni opposizione politica. Le testimonianze di alcuni scampati, esuli in Italia.
23 Maggio 2016 | di

Era il 24 marzo 1976. E fu subito l’inferno. Non sono bastati quarant’anni per disegnare compiutamente la geografia del terrore e dell’orrore in cui la dittatura militare – fiancheggiata da una parte della società civile, da alcuni esponenti del clero, e legata alla loggia massonica P2 in Italia – precipitò l’Argentina già da prima del ’76. Il Processo di riorganizzazione nazionale del generale Videla rientrava nell’Operazione Condor, attuata da numerosi Paesi dell’America Latina, d’intesa con i governi statunitensi di allora, per annientare ogni forma di dissidenza politica. L’ennesimo frutto avvelenato della guerra fredda, e delle miopi visioni di alcune élites economiche e finanziarie. Una strategia di sterminio che in Argentina costò la vita a oltre 30 mila persone. Di migliaia di desaparecidos – studenti, operai, pensionati, casalinghe, imprenditori, sindacalisti, e tanta gente comune, perfino estranea alla politica – non si è saputo più nulla. Una generazione cancellata dalla storia, gettata in fosse comuni; scaraventata, agonizzante o sedata, fuori dagli aerei militari in volo sopra il Rio de La Plata o l’oceano Atlantico. Senza contare i sopravvissuti ad arresti, violenze e torture, spesso espatriati o esiliati; oltre a schiere di neonati affidati a nuove famiglie, dopo l’assassinio delle loro madri. Potrebbero essere ancora centinaia i processi da istruire in un Paese dove, ciclicamente, appare sulla scena politica qualcuno che vorrebbe spazzare via, con un colpo di spugna, i fantasmi del passato. Molti di quelli che scamparono allo stillicidio, anche cittadini italiani, iniziarono una nuova vita nel nostro Pae­se. Alcuni di loro sono attivi nell’Associazione 24 marzo Onlus (www.24marzo.it).

Il dramma e la memoria
Un’ascia che sfondava la porta di casa la notte dell’8 novembre 1974. È il ricordo più vivido di Walter Calamita, originario di Bahia Blanca, ma da molti anni cittadino italiano. All’epoca aveva 18 anni e studiava al liceo. Non si occupava di politica. Il fratello Iginio Roberto era universitario e attivista politico, aveva 21 anni come sua moglie, incinta e prossima al parto. In strada il presidio dei poliziotti e degli squadroni della morte. E poi i fili del telefono di casa tagliati. Stivali che calpestavano con violenza gli scalini. Le botte, i cappucci neri in testa, il viaggio verso il carcere. Le percosse e l’isolamento in un cubicolo di un metro per due. Cella numero 175. Walter e Iginio Roberto, insieme. La stessa notte, gli stessi oscuri aguzzini fecero esplodere una bomba nell’azienda avicola di papà Calamita per poterli accusare di essere dei dinamitardi ai quali era deflagrato un ordigno. La cognata di Walter partorì poco dopo. Un amico di Iginio Roberto venne rinchiuso nella loro cella. Aveva le braccia slogate. «Lo avevano appeso al soffitto – ricorda Calamita – e lo avevano torturato con la picanha: inzuppato d’acqua e disteso su una branda di metallo, gli avevano fatto passare la corrente elettrica nel corpo». Un’altra detenuta partorì con l’aiuto delle recluse. «I poliziotti portarono via il bimbo. A noi prigionieri venne fatto sapere che era morto. E si scatenarono le nostre proteste». L’indomani, di notte, le celle furono spalancate, i detenuti bastonati a sangue, caricati su un aereo e trasferiti nel carcere di Sierra Chica, nella provincia di Buenos Aires. Un altro girone dell’inferno. A farne le spese anche alcuni religiosi incarcerati insieme con gli oppositori politici. «Erano i preti degli ultimi, quelli delle villas miserias: le bidonville; i preti vicini alla gente», rimarca Calamita. Passò un anno e mezzo senza alcuna accusa formale. «Allora mi appellai all’articolo 23 della Costituzione argentina, e scelsi la via dell’esilio in Italia, come mia cognata». Il fratello Iginio Roberto resterà in carcere per quasi sette anni, nonostante l’assoluzione in tribunale. Poi raggiungerà l’Italia, seguito dai suoi genitori.

«Nei siriani che oggi scappano da guerra e dittatura, non posso non rivedere me stesso», ammette Walter. Alla fine, la famiglia Calamita – con un destino di attrazione, scritto fatalmente in quel cognome – si è ricomposta nella terra natale del padre, nelle Marche. «Per noi è sempre stato un motivo d’orgoglio il fatto di esserci ritrovati e riuniti tutti insieme», conclude Calamita che oggi è un imprenditore sessantenne. Ma il dramma della dittatura non l’ha dimenticato. E non ha mai smesso di denunciarlo.

Un nome senza tomba
Nello Spinella è un medico trevigiano nato a Villorba, prima della parentesi argentina. Ritornò in Italia nel 1972, a 26 anni, con una laurea in medicina e una borsa di studio per l’Università di Padova. Suo fratello Michelangelo era impegnato in politica. «Se fossi rimasto laggiù – dice Spinella – sarei stato considerato anch’io un sovversivo per il semplice fatto di lavorare nell’ospedale di Quilmes, a contatto con persone in stato di disagio». La profezia di Nello si avverò per una sua collega infermiera, «colpevole» solo di aver assistito al parto di una prigioniera politica. L’infermiera venne fatta scomparire. «In certi casi i militari sequestravano e uccidevano anche per una semplice scommessa». Quando scomparve anche Michelangelo, nel 1978, Spinella scrisse subito ai vertici dello Stato italiano: ad Andreotti, a Forlani. Contattò i nostri giornali, non senza incontrare qualche muro di gomma laddove la P2 di Licio Gelli aveva i propri addentellati. Nell’aprile del ’79, Spinella partì per Buenos Aires. Si presentò al comando dell’esercito. Poi a quello della marina, poco lontano dall’ESMA, la famigerata Scuola di meccanica della marina dove si consumarono atrocità e nefandezze di ogni genere. Sciorinò i giornali italiani che iniziavano a parlare dei desaparecidos. Ma di Michelangelo nessuna traccia. Sarebbe diventato uno degli oltre 600 italiani scomparsi.

Oggi Spinella critica «l’inerzia dell’allora governo italiano, e la collusione di alcune figure della nostra diplomazia con la dittatura argentina. Solo l’intervento di un nostro giovane diplomatico, Enrico Calamai, consentì di salvare le vite di molti italiani». E conclude amaramente: «Se quello fosse stato l’atteggiamento tenuto anche da altri, forse mio fratello Michelangelo sarebbe ancora qui».

Trappola d’amore
È impressionante l’esperienza familiare di Paolo Privitera, catanese di Grammichele. Una vita nell’edilizia. Nato in Sicilia come il fratello Salvatore, si trasferì a Mendoza, in Argentina, quando era ancora bambino. Nel 1974 Salvatore, medico anestesista, fu prelevato dall’ospedale Rawson di Córdoba dove lavorava. Come sindacalista era impegnato contro le carenze del servizio sanitario. Venne portato via con l’accusa di aver partecipato all’attacco di una caserma. Fatto a cui era estraneo. Il canovaccio era sempre lo stesso: accuse farlocche come scusa per far scattare l’arresto. Analoga sorte toccò a sua moglie Dora Zarate, anche lei medico. Paolo e i suoi genitori si trasferirono da Mendoza a Córdoba per assistere Salvatore. Nel ’75 Dora fuggì dal carcere femminile, ma venne catturata dai militari. Gli squadroni della morte misero gli occhi anche su Paolo che sfuggì a due tentativi di sequestro. Per lui, Córdoba era diventata pericolosa. E così tornò a Mendoza. Intanto Salvatore fu trasferito nel carcere di La Plata. Paolo lo incontrò prima di partire per l’Italia. Era il 1978. Qui iniziò una campagna di informazione e sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Scrisse all’allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini.

L’anno successivo, Salvatore uscì di prigione e si stabilì in Italia. Per poco. Appena si diffuse la notizia di una possibile caduta della dittatura, Salvatore ripartì. Volò in Messico, e via terra tentò di raggiungere l’Argentina. Ma l’intera America latina era un campo minato per i dissidenti. I Privitera vennero a sapere che Salvatore era stato catturato. Poi più nulla. Fino a un’agghiacciante scoperta. «Caduta la dittatura e iniziati i processi, da una testimonianza agli atti abbiamo scoperto che la moglie di Salvatore era diventata una collaboratrice dei militari – ricorda Privitera –, ed era presente alle torture avvenute nel centro clandestino di detenzione La Perla di Córdoba. Già nel 1979, quando Salvatore era in Italia, lei gli aveva chiesto di raggiungerlo. Si è poi scoperto che, a una testimone, la donna aveva confidato che voleva far rientrare Salvatore in Argentina per farlo catturare».

A distanza di quarant’anni che cosa si prova? Dolore, rabbia, impotenza? «Quello che mi preoccupa davvero è che, con il nuovo presidente Macri, il corso della giustizia possa essere interrotto da qualche nuova legge-salvacondotto – paventa Privitera –. Dell’Italia non mi posso lamentare. Se non fosse stato per il supporto ricevuto, non saremmo riusciti a liberare Salvatore. Almeno la prima volta».

Ana Libertad è viva!
È la cronaca di una mattanza il racconto di Hilario Bourg, arrivato a Milano quando aveva appena 3 anni, nella primavera del 1977. Oggi è un affermato architetto. «Nel settembre del 1976 era scomparso mio zio Roberto José de la Cuadra, sequestrato davanti a sua mamma dopo che un militare lo aveva riconosciuto tra i giovani rastrellati nel condominio in cui vivevano. Nel febbraio del ’77 sono stati sequestrati e sono scomparsi mia zia Elena de la Cuadra, maestra d’asilo, e suo marito Hector Baratti. Il fratello di mio padre, Raoul Bourg, è scomparso nel ’77, poco dopo che eravamo arrivati in Italia. Aveva le sue idee, ma non faceva politica. Dopo di lui è stata presa anche sua moglie. E anch’essa non militava in alcuna formazione».

La vicenda familiare di Hilario si tinge di giallo con la sparizione della cugina Ana Libertad, figlia di Elena de la Cuadra. La donna era al quinto mese di gravidanza quando fu sequestrata. Quando diede alla luce Ana Libertad, i familiari lo seppero da alcuni biglietti anonimi. Poi l’inattesa conferma: «I miei genitori e mio zio, appena arrivati in Italia nel ’77, si presentarono in Vaticano dove incontrarono il Superiore generale dei gesuiti, padre Pedro Arrupe, che aveva un debito di riconoscenza verso la mia famiglia che aveva finanziato alcune borse di studio. Arrupe diede loro il riferimento dell’allora Provinciale dei gesuiti in Argentina, Jorge Bergoglio. Passammo il contatto a mio nonno. Lui si presentò da Bergoglio e gli raccontò del sequestro di Roberto José, di Hector, di Elena e della sua gravidanza. Bergoglio indirizzò mio nonno a monsignor Picchi, a La Plata. Grazie a questa catena di contatti, venimmo finalmente a sapere dall’allora vice capo della polizia di Buenos Aires, Tabernero, che la bambina stava bene, ma che per Elena e Roberto José non c’era più nulla da fare. Allora non era ancora notorio che i figli degli oppositori politici fossero rapiti e affidati ad altre famiglie».

Per anni, Ana Libertad è stata cercata. Senza esito. Fino alla svolta. Nel 1978 furono ritrovati alcuni resti umani sulle rive del Rio de La Plata, e vennero conservati come quelli di molti altri corpi. Nel 2010, con l’analisi del Dna, si stabilì che quei resti appartenevano a Hector Baratti. Il che significava che lo zio di Hilario era una vittima dei voli della morte. Nel 2014, Ana ha scoperto di non essere figlia biologica della sua famiglia adottiva. Un esame genetico ha rivelato che i Baratti-de La Cuadra erano la sua vera famiglia. Così ha appreso anche della tragica fine di suo padre Hector. «Temevamo una reazione di rifiuto, com’è capitato ad altri – conclude Bourg –. Invece il nostro incontro è stato molto positivo. Mia cugina ha ritrovato la famiglia vera che, per quarant’anni, l’ha sempre amata, cercata e voluta».
 

ENRICO CALAMAI
Lo Schindler degli italiani
 
di Marina Artusa

Davanti allo sguardo disperato di chi ormai vedeva la morte in faccia, Enrico Calamai, vice console italiano a Buenos Aires all’epoca della dittatura militare argentina, capì che la sua posizione gli consentiva di mettere in salvo centinaia di perseguitati politici. Fu così che, tra il marzo del 1976 e il maggio del 1977, Calamai, che era stato inviato in Argentina nel 1972, si mobilitò mettendo spesso a repentaglio anche la propria vita, così come aveva fatto in Cile in occasione del golpe del generale Pinochet, nel 1974. «Ho cercato di proteggere i perseguitati politici che si presentavano in ambasciata – confessa oggi –. Quanti erano? Non lo so. Non li contavo. Forse 300». Calamai è andato in pensione negli anni Novanta. Conoscendo la violenza perpetrata dai militari argentini, egli usava i mezzi di cui disponeva per assistere chiunque si fosse rivolto al suo ufficio, attraverso una rete di passaparola: «Aiutavo le persone che riuscivano a prendere contatto con me fornendo loro i documenti necessari per scappare in Italia – ricorda –. Li accompagnavo all’aeroporto per garantire la loro incolumità. Alcuni di essi li nascondevo all’interno della nostra rappresentanza diplomatica o a casa mia». Raiuno, di recente, ha trasmesso la fiction dal titolo Tango per la libertà sulla storia di Enrico Calamai. Il film, interpretato da Alessandro Preziosi, Rocío Muñoz Morales, Giorgio Marchesi e Anna Valle, è tratto dal libro Niente asilo politico. Diplomazia, diritti umani e desaparecidos, scritto dallo stesso Calamai. «Quando sono stato costretto a lasciare Buenos Aires, nel 1977, ho rimosso il passato. Solo così potevo vivere il presente». Con un unico cruccio: «Primo Levi l’ha spiegato bene. Chi sopravvive, si sente colpevole per tutti quelli che non ce l’hanno fatta. Quest’idea non mi lascia in pace. Avrei potuto salvare più persone». Calamai ha testimoniato al processo, in Italia, contro i militari argentini, e ha contribuito a fondare il Comitato per la promozione e la protezione dei diritti umani. Nel 2004 il presidente argentino Néstor Kirchner gli ha conferito la Cruz dell’Orden del Libertador San Martín. E nel 2010 ha ricevuto il Premio Diritti umani dalla Free Lance International Press.

 
 
Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017